Ninfe alle sorgenti dell’Ambro

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Anello classico per le sorgenti dell’Ambro. Di buone tracce disponibili ce ne sono diverse, questa è la mia con un breve tratto che si allarga sopra al sentiero per via di una slavina. La voglia di farlo mi è venuta una sera, proprio mentre stavo li nello spiazzo del Santuario a riguardarmi le punte e i balzi ancora bianchi di neve mentre venivano ingoiati dalle nubi cariche di pioggia. Le linee delle creste scure e aspre, il vento affilato, la montagna che ti guarda come a dire provaci col sole che è meglio. Alla fine il sole è arrivato, sono andato di Marzo con i crochi viola che spesso hanno affollato tratti di sentiero insieme a degli stupendi tassi verde scuro e agrifogli alti più di due metri.

Con la buona stagione, quando le faggete hanno le chiome in piena forma, lo spettacolo aumenta assieme all’ombra, cosa assai gradita se ci si incammina nei mesi più caldi.

Comunque la bella sorgente è sempre li, in ogni stagione, con quest’ampia cavità e l’acqua che esce già rapida e abbondante. Da tempo immemore l’Ambro corre giù nella gola, a tracciare e segnare, a erodere e trasformare con la sua mole fluida. Come spesso accade ai nostri paesaggi, elemento naturale e fenomeno fisico si impastano a Storia, umane vicende e contesti antropici; e ancora una volta, come nel caso del torrente Ambro il collegamento, la chiave che può aprire il lucchetto delle cose celate è il toponimo stesso: anche questo elemento soggetto a trasformazioni ed evoluzioni, a erosioni, a confluenze e commistioni, ma comunque resistente ai sedimenti e alle consunzioni dei secoli.

Per scorgere le origini del nome Ambro non basta farsi tre ore ad andare e tre a tornare, seguirne l’evolvere delle molte trasformazioni non è automatico come caricare un gpx su un ricevitore satellitare. A dire la verità, tracce di percorso ce ne sono: la “traccia” che mi è capitata tra le mani è un intervento di Daniele Maggi, professore dell’Ateneo maceratese, nel convegno di studi tenuto in occasione delle celebrazioni del millenario del Santuario della Madonna dell’Ambro. Il docente di linguistica offre spunti e riflessioni assai interessanti sull’origine del toponimo: ci dice ad esempio che un Ambre scorre nella Francia Meridionale e un Ammer è affluente del Neckar presso Tubinga e che ancora c’è un Amber affluente del Derwent nel Derbyshire in Inghilterra, ma ciò non basta, tiene a precisare, per dare natali germanici o celtici al nostro Ambro. Da noi i Celti (sarà per le frombolate in testa che si son presi dai Piceni o perché il Rosso Piceno non era ancora buono come il Rosso Conero, mi viene da pensare) più sotto di Senigallia non sono mai scesi. Nelle carte antiche, continua a dire, si trova il nome dell’Ambro registrato come Amaru, Amarus, Amarum, Ammaro o Ambaru,  e a sua volta sembra voler seguire la traccia lasciata da D. Olivieri secondo cui la famosa x in cui scavare starebbe in un termine Lamulam, diminutivo di lama, stagno o palude, da cui sarebbe anche nato il toponimo Lambara una frazione, guarda caso, di San Zenone al Lambro (Milano). Il nostro Ambro avrebbe avuto quindi lamulum come base di partenza, e per Maggi l’idea diventa più convincente se si pensa che altri luoghi di culto, prossimi a fiumi e torrenti, si sono tenuti nel nome, per indicarne la posizione, l’attributo ad lamulas. Ad esempio si riporta l’abbazia benedettina di S.Michele delle Lamole al Valico di bocca Trabaria sulla strada per Urbino o ancora, sul monte Amiata presso Arcidosso in provincia di Grosseto, la Pieve di S. Maria di Lamula. Per capire come da Lamulum si sia arrivati ad Ambro, a questo punto bisogna tendere l’orecchio e sentire come ancora nei nostri dialetti ci siano parole che subiscono trasformazioni analoghe: da noi “camera” ci mette un niente a diventare sulle labbra dei più attempati “cambera”, così come anche la cenere ogni tanto la si sente come “cendere”. Da Lamulum a Lamburum per arrivare a l’Amburum e quindi a l’Ambro, sarebbe quindi questa un’ipotesi di evoluzione per il nostro toponimo.

È a questo punto che Maggi, cercando di andare ancora a ritroso e più in profondità, introduce uno spunto assai suggestivo: si chiede se il termine lamulae non fosse già il prodotto di una “etimologia” popolare, cioè se il termine lamulae non sia ad esempio un diminutivo delle lamiae, (lammie in italiano) che ha subito tale trasformazione a furia di passare di bocca in bocca. Delle Lammie, ci fa notare il professor Maggi, ha già parlato un altro linguista, tale Giacomo Leopardi nello Zibaldone: vien fuori così che gli scrittori del Trecento, tesi con l’orecchio alle labbra popolari, quando trovavano in un testo latino il termine nympha traducevano, nove volte su dieci, Lammia. Insomma, solo a pronunciare Ambro, ti metti sulle spalle uno zaino carico di secoli e senza saperlo ti fai una camminata così lunga da finire ai tempi delle ninfe, cioè a epoche pre-cristiane, ovvero dritto dritto ai secoli del paganesimo.

La “traccia” dell’interessantissimo intervento di Daniele Maggi si chiude con conclusioni assai cariche di suggestione:

 Se dunque le Lammie poterono essere le ninfe delle lamulae, l’edificazione di un santuario ad lamulas diventa il segno di una continuità del carattere sacro del luogo dal paganesimo al mondo cristiano; stabilisce il punto dove da sempre il volto del sacro si è manifestato, nei leggeri e cangianti riflessi della luce dalle lamine d’acqua, più spesso nelle selve segrete sui monti. È evidente la particolare pregnanza che le solidarietà menzionate assumerebbero nel caso del santuario dell’Ambro, che racchiude nella stessa decorazione pittorica quella continuità, espressa nella tradizione, forse più alta, di altre figure comunque sia ugualmente femminili, le sibille; prima del santuario, la ninfa era diventata Madonna nella cavità di un faggio presso l’acqua, il cui scorrere più fitto cominciò finalmente a annunciarsi alla fanciulla del miracolo.

Alessandro.

Fonte: Daniele Maggi, la Madonna dell’Ambro: nota toponomastica. Il Santuario della Madonna dell’Ambro e l’area dei Sibillini, atti del convegno di studi a cura di Giuseppe Avarucci. Edizioni di Studia Picena.

 

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