Di sentieri e finitudini

 

Oggi il silenzio è fatto del cielo terso e del bianco delle cime dei monti ed è rotto dallo scorrere del ruscello ingrossato. Il sentiero sale tra i fusti scuri dei faggi e dei castagni, a tratti sgombro, a tratti ancora semisepolto dalla neve segnata dalle orme di creature notturne. Di qui sono passati sicuramente il cinghiale e l’istrice, probabilmente il tasso e forse il gatto selvatico. Io ho già percorso questo sentiero ieri notte, quando con la testa sul cuscino ho chiuso gli occhi e ho lasciato che emergesse qualcosa. Il pomeriggio avevo guardato i monti chiedendomi quale sarebbe stata la traccia che avrei battuto il mattino dopo. Gli occhi hanno corso da cima a cima, sulle valli e sulle gole mentre lo schermo della neve rifletteva le frequenze del rosa e dell’arancio e poi quelle del violetto. Ho fatto come se stessi spaginando un libro, leggendo qua e là in attesa che una pagina in particolare catturasse la mia attenzione. Solo a sera, chiudendo gli occhi, ho lasciato che tra le tante vie possibili me ne fosse venuta incontro una e una soltanto: ho lasciato la mente a pascolare senza lacci e senza pesi, senza pensieri e incombenze. Quando è apparso, ho immaginato di percorrere quel sentiero con la sensazione che mi stesse ruzzolando dentro chissà da quando, dettato da voglie selvatiche e inconsce, impresso nei cromosomi forse.

Ed ora sto nel ventre di una stretta valle, con i sentieri che si snodano e si intersecano in un groviglio viscerale ed ora che sono arrivato a un quadrivio vorrei sdoppiarmi una volta e una volta ancora per andare su ognuno di essi. Ma resto uno e limitato, sono come il Gran Kahn ritto in piedi sulle carte dei suoi regni sterminati: impotente soltanto a vederli, a moltiplicarsi secondo le potenze del due e viverli e conoscerli uno per uno.

Le ramificazioni mi stanno ancora davanti: da una parte si sale su alla Rocca, da un’altra, andando dritti per un paio d’ore, si va alla chiesetta affrescata di Sibille e qui a sinistra si scende giù nel vallone per arrivare a quel pugno di case con il fumo stracco di un paio di comignoli.

Oggi voglio prendere quello che scende. Stretto e nero come un biacco, si infila tra castagni e faggi e a rompere il silenzio ancora il torrente, il fragore che si perde nelle valli, i passi che affondano scrocchiando nella neve, e il fruscio dei salti dei caprioli che sospesi tra curiosità e timore mi prendono le misure da dietro le roverelle. Basta solo che accenni mezzo passo verso di loro per vederli balzare via, con zampe e schiene agili e flessuose, con un’energia che li rende creature capaci di comprimere spazi e tempi, e con quegli occhi diamine, colmi di un’innocenza venuta stando fusi alle piante e alle rupi e al muschio e al letto umido e profumato della terra.

Il pugno di case è vicino. Entro da una stradina sterrata che si butta direttamente nella piccola piazzetta. Ci sono la chiesina e il fontanone, le abitazioni accavallate una sull’altra e un palazzotto diroccato. Questo ha il muro a ponente tappezzato di felci verde intenso, ha incisi fiori a sei petali, e sull’architrave uno stemma che fa pensare a un giglio. Da una finestra vien fuori il profumo di ciambelle all’anice, e quando si apre qualche porta escono questi vecchietti che senza esitare ricambiano il tuo sorriso e il tuo saluto. E i loro occhi sembrano quelli di bambini di quattro anni e le loro mani, soltanto le loro mani, con i solchi che hanno e i calli e i porri e le macchie gonfie rosse e violacee, possono dire quanto hanno faticato e quanto hanno fatto su questa terra.

Uno di loro mi viene incontro appoggiandosi a un bastone fatto con il legno leggero della robinia, e deve averlo fatto ieri sera perchè ancora penzolano i pezzi di corteccia e qualche ricciolo. Anche lui con questi occhi così candidi, ha una giacca addosso e un cappello di lana in testa: mi chiede da dove vengo e chi sono e che faccio, e così ci mettiamo a chiacchierare riscaldati da quella che, da qui fin quasi giù al mare, è detta “sperella”, cioè i tenui raggi del sole invernale, poveri e preziosi, che da soli riescono a farti ricordare di quanto è buono il sole.

E lui parla appoggiato al muro e quando gli chiedo del palazzone dice che apparteneva a dei signori venuti dalla Toscana e quello dello stemma – è appunto il giglio di Firenze – e devo sapere anche che – la strada sulla quale stiamo parlando adesso è il sentiero dei mietitori. Perchè prima non era come adesso. Qui c’era gente che andava e veniva continuamente. Perchè da qui si va al valico e poi vai di là fino in Umbria. E allora poi i mietitori potevano decidere se andare a lavorare a Roma oppure in Toscana -. E la parola Roma, quando la pronuncia, è come se smuovesse dei riverberi nel suo sguardo e dicendo Roma è come se avesse detto il mondo intero, tutto intero il mondo che si riesce a immaginare là dietro le alte creste bianche e affilate. Per cui, se mai una volta venisse di girare il mondo credo toccherà entrare dentro questa valle, prendere il sentiero dei mietitori e vedere fin dove arriva.

Lasciando il paese i crinali mi si chiudono dietro ripidi e scuri, la strada è già asfaltata e lascia scendere facile, quasi ad accompagnare e a spingermi fuori. Con l’accelerazione di un risveglio, lasciandomi il sapore di qualcosa che mi è stato promesso in sogno. I crinali si chiudono come un sigillo, e restano lì a fare da confine tra la dimensione in cui il respiro si fonde con lo scroscio dei torrenti e quella dove si spezza strozzato tra gli ingranaggi. Tra ventre e mondo. Tra mare e riva. Sto lasciando il luogo dove ogni uomo è re di tutto ciò che il suo sguardo candido riesce ad abbracciare, per tornare nel grigio olimpo di squallidi dèi destinati alla caduta.

A.

vallegrasciaRED

2 Comments

  1. lucavivan ha detto:

    Alessandro, ti consiglio di inserire questo bel pezzo su Medium, non so se tu lo conosci o l’hai già fatto. Ancora complimenti.

  2. w4bik ha detto:

    Ancora grazie. Non conoscevo la piattaforma, seguo il consiglio allora!

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