Cronache da un paesaggio binario

Sul retrovisore la linea livida del mare é inghiottita dai primi colli. È una linea esausta che piano si chiude tra i gialli delle falesie morte e i neri delle forre: voli scuri, sgarri di china nel cielo come corone leggere come tracce come residui di una mano che è andata li a dilettarsi nel segnare il cielo.
Davanti le colline diventano sempre più fitte e aspre, chilometro dopo chilometro, come se mi stessi addentrando tra le convoluzioni interne di un ventre. Le chiome delle roverelle sui margini frastagliati, i calanchi e i campi lavorati a farne le rughe e poi altre tracce e altri segni a srotolare nello spazio le innumerabili forme. Quando si alza la quota, le geometrie dei campi e le linee delle colline si cancellano sotto la coltre di neve. Frequenze che si acquietano, che si infrangono e si inabissano in un silenzio bianco.

Sotto il transito dei satelliti, sotto i loro occhi ansiosi anch’io segno la mia linea, da punto a punto, dirigendomi agli antipodi dei non luoghi in cui il solo modo di esistere è il non essere, alle mie spalle parallelepipedi come tanti, con una torre in mezzo come tante, con una scritta tipo “noi siamo quello che facciamo”: cose che dovrebbero gonfiare e motivare e dare un senso al tempo speso e che dovrebbero farti sentire parte indispensabile di un Tutto. Il condizionale è d’obbligo, perchè il dubbio resta come un rumore di fondo, un disturbo avvinghiato al segnale come un’edera e il dubbio sostanziale è che non sia invece questo segnale il disturbo vero e proprio, il degrado dell’informazione, e il rovello di fondo che permea i giorni non sia l’unica pagina che invece valga la pena leggere.

Anche quelle torri verranno ingoiate dai rampicanti e crolleranno e passeranno, come passano imperi e civiltà, come passa il segnale video, come passano i volti ingoiati dall’anonimato. Ciò che non passa è questa radiazione di fondo, impressa dall’inizio, quella che fa andare stasera verso monti e colline come se stessi risalendo l’utero, come se soltanto salendo su fino a dove la neve splende al plenilunio e andando dentro, in fondo, fino a dove posso infilare la mano nella corrente, possa toccare finalmente ciò che mi riconosce e mi definisce.

(All’alba la pista di atletica è per buona parte coperta dalla neve. Solo in alcune strisce si ha il contatto con il fondo e bisogna stare concentrati a guardare bene se si mette il piede sopra al gelo. Bisogna guardare, e ascoltare. Lo scrocchio grasso significa che la scarpa sta sulla neve, quello breve e acuto dice che sotto la suola c’è invece il gelo. Fossi con gli auricolari e la musica a manetta non credo riuscirei a correre granchè stamattina. Devo fare silenzio intorno e togliere di mezzo qualsiasi altro input perchè emerga l’informazione che per me in questo momento è essenziale.) Le antenne debbono stare su a scremare dal segnale tutto il superfluo, tutto ciò che è stato messo lì successivamente come un additivo, come una distrazione, come codice alieno e parassita. C’è ogni volta da orientarsi verso l’origine, da volgere la prua alla sorgente, al principio, lì dove la pistola è ancora fumante di senso ed energia. Di vita. Ogni volta c’è da trovare il modo di zittire tutto ciò che è stato messo lì a far da melassa: tutti i giga e i thera che separano dall’essenziale, da quella cripta di silenzio dentro la quale instaurare dialogo e allacciarsi all’impronta primigenia. C’è da creare un paesaggio binario, popolato di bianchi e di neri. Di informazione essenziale e silenzio. Segno gravido su pagina bianca. Zero ed uno che si alternano nella reazione delle endorfine codificando promesse di ebrezza. Una visione più chiara e più netta scaturisce in piccoli impulsi, una singola onda quadra di significato irrora i circuiti logici ed esplode in geometrie frattaliche, paesaggio e pulsazioni cardiache, stesso alfabeto, stessa codifica. All’orizzonte un ponte adamantino di connessioni rinnovate, di fusioni, di evasioni definitive dalla prigione materiale, dal feticcio di epidermide dentro il quale ci vogliono relegati.

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