Potrebbe sembrare strano parlare del Conero senza dire del suo mare, senza gli azzurri e i verdi liquidi e senza i bianchi delle schiume che vanno a lambire o a sferzare la falesia.
Ma per un attimo, e solo per quest’attimo, lo si terrà in disparte quel mare splendido legato al promontorio marchigiano in una simbiosi di bellezza. Perché il Conero è anche monte, corpo antico e elevato, concrezione di calcare, bianco ed alto di roccia. La sua voce non solo si perde e si corrode nelle tempeste che lo sferzano, ma nella roccia rimane, insiste, racconta. Una roccia che nel mutare delle sue tante forme, è stata un nastro magnetico che ha registrato informazioni di ere, evoluzioni, sconvolgimenti. È stata pelle che reca segni e cicatrici e a volte anche pagina che ha invogliato a tracciare, segnare, scolpire. Ed ogni volta, ha trattenuto qualcosa: informazioni più o meno chiare e intellegibili ma comunque sempre preziose, cariche di suggestione, capaci di aggiungere fascino a un luogo già incantevole per i suoi ambienti e paesaggi.
Ad esempio, sullo stradone di San Lorenzo, uno dei sentieri che sale verso il culmine del monte, presso una cava dismessa, si può distinguere quello che i geologi chiamano il limite K-T ovvero la linea di cesura delle formazioni rocciose del Cretacico e del Terziario. Per sapere che cosa ha da dirci la roccia al riguardo sono necessarie le lenti del microscopio: appoggiando gli occhi si vedrebbero diversi fossili di organismi, i foraminiferi, e si noterebbe come, nel passaggio da uno strato all’altro, la loro quantità e varietà si abbassino notevolmente. È la traccia lasciata da una estinzione di massa, esattamente quella che 65 milioni di anni fa ha causato la scomparsa su tutto il pianeta dei dinosauri. Come sigillo, a suggerire la causa di questo evento, la roccia ha trattenuto tracce di iridio, un elemento raro sulla terra ma spesso presente nei meteoriti.
La presenza di cave non deve stupire. Per secoli il monte è stato oggetto di attività estrattiva e la materia che usciva poteva diventare calce – in una delle fornaci ancora visibili nei dintorni, interessanti testimonianze di archeologia industriale – oppure materiale per la costruzione della vicina Ancona, finendo nelle mura e nelle chiare facciate delle chiese più belle di questa città. I primi ad essere estremamente attivi furono i romani, da sentiero si possono raggiungere le grotte romane: cunicoli che entrano nel fianco del monte anche per centinaia di metri, scavati dagli schiavi, che recano ancora incisi caratteri latini.
Anche fare due passi presso i siti di estrazione più recenti può regalare belle sensazioni. I crateri delle cave a cielo aperto affondano nel verde, ma è possibile scendere e camminare sul loro fondo. Anno dopo anno, la vita vegetale lentamente avanza riappropriandosi dello spazio che gli è stato sottratto. Gli arbusti salgono dalla pietraia, le radici tornano ad abbracciare il bordo delle rupi, le chiome degli alberi si gonfiano come fossero il fronte di un’onda colossale. A volte l’aria entra e accelera incanalandosi, ed è il momento buono per godersi il volo dei rapaci che si alzano sfruttando le correnti calde.
Per questi uccelli è assai facile individuare le correnti, dov’è che scorrono, dove scivolano calde e leggere sulle grevi masse di correnti più fredde. E lo fanno percependo le subfrequenze delle masse calde, ovvero, con un occhio che va dall’infrarosso all’ultravioletto, riescono a percepire e distinguere il colore dell’aria calda; riescono a farlo, proprio come un essere umano riuscirebbe a distinguere il colore di un ferro incandescente. Salgono su quelle correnti tracciando invisibili spirali: ora sono a centinaia di metri di altezza, sono arrivati in cima a quelle altezze quasi senza sforzo ed è come se fossero all’inizio di una lunga discesa, uno scivolo, praticamente un piano inclinato fatto d’aria sul quale andranno veloci. Ad attriti minimi e quasi senza mai battere le ali copriranno quelle centinaia di chilometri necessari a compiere la loro migrazione periodica. Perché questa cosa, questo prendere la corrente buona e poi salire su, su in alto per poi partire, avviene tutti gli anni ed ogni volta sono gli esemplari più anziani e più esperti che vanno su per primi e dietro i giovincelli a cercare di capire come devono e come non devono fare. Ed è una lezione alla quale dovranno prestare massima attenzione, perché l’anno successivo toccherà a loro il compito del maestro.
La capacità di distinguere frequenze utili da rumori inutili, coglierle e separarle, lasciando emergere quelle sole che sono essenziali facendo silenzio intorno: credo sia una facoltà utile non solo a dei rapaci. È una facoltà che ha a che fare con un concetto assoluto del volo, del distacco, dell’elevazione. Cercare silenzio, coltivare silenzio e riuscire a catturare armonie e vibrazioni e così staccare il volo: da lassù si vedrebbe la ferita della cava sparire nel verde, come fosse inghiottita dalla pancia stessa del monte. Si scoprirebbe un silenzio nuovo, profondo come il silenzio che c’è in una cripta, nudo ed essenziale come la pietra che la riveste.
A proposito: una tappa obbligata quando si sale al Conero è la Badia di San Pietro, la chiesa del convento fondato dai camaldolesi con la sua cripta. Stupendi i capitelli in stile romanico: le mani che li hanno scolpiti hanno plasmato simboli che evocano il dualismo intrinseco nell’uomo e nella natura, il bene e il male, l’elevazione e la dannazione, la capacità del mondo di rigenerarsi all’infinito, in un processo anch’esso duale che oscilla ogni volta tra distruzione e creazione.
Da quando esiste l’uomo la cima di un monte è luogo privilegiato per il contatto con il divino. Perché si è più vicini al cielo. Perché per arrivare in cima, al culmine, bisogna prima salire e penare e sudare, superare una prova insomma come l’esistenza di ogni giorno non cessa di ricordarci. La roccia del Conero ci dice che l’uomo è salito qui a cercare il divino quasi dagli albori.La pietra che contiene un’informazione così preziosa è la placca di arenaria, raggiungibile da sentiero, sulla quale sono state scoperte incisioni rupestri risalenti a un periodo molto probabilmente antecedente all’Età del rame. Si tratta di canalette che seguono le pendenze della lastra andando a convergere verso delle coppelle, ovvero delle piccole vasche rotondeggianti scavate nella roccia.
Poco si sa sul significato di queste incisioni, così come si possono azzardare soltanto ipotesi sulla loro precisa funzione: potrebbe essere una rappresentazione topografica cioè una mappa di luoghi anticamente rilevanti, oppure un altare sacrificale e vai a capire se il sangue che probabilmente scorreva sulle canalette per riempire le coppelle, era quello di animali o di qualche disgraziato. Un’ipotesi meno cruenta lo indica come un sistema per raccogliere le acque piovane, anche queste come in molti altri culti, utilizzate in riti e vaticini.
Al di là di ogni ipotesi, rimane comunque la testimonianza di un’umanità che già dalla sua infanzia possedeva attitudini quali la capacità di astrazione, nel caso le incisioni fossero una mappa, e il senso del sacro e del divino nel caso il sito sia stato usato per svolgere riti e sacrifici. Attitudini che hanno accompagnato l’uomo durante tutto il suo cammino attraverso la Storia.
Insomma, la voce dei secoli e dei millenni ha trovato nella roccia del monte Conero la materia ideale per imprimersi. I suoi echi si mescolano alle molteplici percezioni degli istanti presenti, unendosi a suoni, colori e profumi, realizzando la preziosa alchimia di questo luogo unico.
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