Questo pezzo dei Porcupine Tree nella testa. Voglia di uscire, di camminare per affacciarmi su di una qualche soglia, è ora di farlo quando il tuo sole è una lampadina. Molte tracce in mente, percorsi da legare e intersecare con le gambe e con la pagina ma gli occhi oggi cadono sul punto della mappa dove è segnato il confine, la linea che oggi meglio di altre mi dà l’idea della soglia, del passaggio, della linea oltre la quale i riferimenti cambiano, il pieno diventa vuoto, quel poco che sai si ritira per lasciare spazio al mare nuovo. Sulla mappa la linea è il fiume, il Tronto, qui prossimo alla foce diventa confine di regioni, Marche e Abruzzo. Poi alzi gli occhi e vedi l’alto crinale, da superare certo, ma senza dimenticare che sulla sua cresta correva sentiero antico, per certi versi ancestrale. Prima della Salaria, prima dei Romani e dei Piceni. Vie più antiche dell’uomo, tracciate dalle mandrie di animali, spinti dagli istinti, dalla fame, dal bisogno di passaggi nuovi. E l’uomo dietro a osservare e ripercorrere, l’animale da osservare e da seguire, non più bestia da cacciare e macellare, ma guida, ago della bussola, depositario di conoscenza, totem e dunque divinità. Dal crinale, il mare di colline continua ad andare verso Sud e diresti di essere ancora di qua della soglia. I declivi segnati e disegnati dai coltivi, le punteggiature degli ulivi, le linee dei vigneti che corrono parallele. Ma sarà altro a dire che la linea è alle spalle: sulla lenta cadenza dei passi, sulla loro giusta lentezza gli occhi nuovi si schiudono, le cose si rivelano, corpo e mente tornano ad essere simbiotiche al cielo, alla terra, alle strade bianche.
Perché lento non significa fermo, dal finestrino delle auto in corsa l’informazione fondamentale annega nel paesaggio che si frammenta fino a liquefarsi: lo sguardo non è abbastanza rapido, l’occhio è ancora quello dell’uomo che si alza sulle due gambe per cercare vie di fuga o nuovi orizzonti di caccia. All’aumentare delle velocità, l’occhio si incolla al display per pescare informazioni sull’ambiente oramai divenuto grumo di linee liquide, terra informe e omogenea, senza frontiere e necessarie differenze. Sui due piedi si torna ad essere connessi ad un respiro universale e naturale. Dall’alto del crinale si scorgono altri crinali, cadenzati dalle valli verdi e ben tenute: è l’alternarsi delle valli e dei crinali a darmi il ritmo oggi, l’occhio finalmente libero, il sole a irradiare frequenze naturali, a illuminare e svelare dettagli, atmosfere.
Che la frontiera sia alle spalle non è tanto la mappa a dirlo, ma quel grumo di sfumature che sulle mappe non stanno scritte. Mentre alle vigne si alternano coltivazioni di kiwi, vedi i segni del passaggio sulle case, sulle loro architetture e sulle loro aie: è qualcosa che si respira mentre il respiro è modulato sui tuoi passi, stesso sole, stesso cielo eppure la sensazione è netta. Poi arrivano gli accenti a confermare, quelli delle parlate ma anche gli accenti di forme e colori che trovi sulle mura e sulle cose. Entri nel borgo pigro e rilassato nella calura: le linee della sua piazza e dei suoi scorci, un campanile del ‘400 che dovrebbe stare non più sotto di Cremona ed invece lo trovi qui assieme alle palme, con i fogliami attraversati dal fumo delle griglie dove sfrigolano gli arrosticini di castrato. Che la frontiera era alle spalle lo avevano annunciato soprattutto i tabernacoli nelle campagne e le loro croci: quelle di là, oltre il fiume verso nord, sono spesso semplici e disadorne e queste invece le hai trovate adornate di lance e pinze, i chiodi con il martello, la scala, una canna con la spugna e il gallo che già ha cantato. Cambiano gli accenti, cambiano i simboli e i suoni e la melodia da qui è soltanto accennata. Sulla mappa non sta scritto quanto si potrà conoscere di là del fiume. Sulla mappa il sole è una lampadina.

Si usa molto in Abruzzo rappresentare gli strumenti della Passione di Cristo
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