Come costruire un’Arca sul magnifico altopiano.

Non sarà il monte Ararat, ma anche qui sull’altopiano di Castelluccio le acque a un certo punto si sono ritirate: difatti questo è il fondo di un antico lago che poi si è prosciugato non so quanti milioni di anni fa.
Non dovrei essere qui perché è proibito. O meglio non è proibito starci ma, su ordinanze emanate dopo il terremoto, lo è arrivarci con le auto percorrendo una delle tre provinciali che collegano l’altopiano al resto del mondo. Non dovrei essere qui, eppure ci sono. Come ci sono arrivato non ha poi molta importanza: potrei averlo fatto seguendo la traccia dei sentieri innevati, o per teletrasporto dall’Enterprise che svolazza nell’alto dei cieli, o più semplicemente lasciando la macchina a un certo punto e poi metti gli scarponi e vai. Non ha importanza come sono arrivato, ha forse più importanza ciò che mi ha mosso a prendere zaino e ciaspole e venire.

Sono sceso nell’altopiano lungo uno dei suoi fianchi. La linea del sentiero fa pensare alla traiettoria della pallina da roulette che ha appena iniziato la sua corsa verso il vortice delle trentasette possibilità. Io so già che uscirà il mio numero, so già che la pallina si fermerà esattamente lì, nel centro della piana. Man mano che scendo l’altopiano si apre scoprendo distanze bianco latte. Le linee prospettiche si aprono ampie e veloci, intorno una cornice di colli ondulati, creste e crinali, la colonna vertebrale dei Sibillini. Cavalli allo stato brado mi scrutano, sospesi nel teso languore della dimensione selvatica. Quando atterro, quando la pallina si stoppa dove sapevo che si sarebbe stoppata, trovo un manto di circa trenta centimetri. Poca neve, per quanta ne può cadere da queste parti quando decide di cadere per davvero. Quando atterro i piedi restano fermi sul trivio al centro della piana, è il punto dove la strada provinciale 477 si dirama nelle tre direzioni: verso ovest per andare a Norcia, verso est per svalicare nelle Marche e verso nord per raggiungere il borgo. Tutto intorno è il cratere, come oramai ci hanno abituato a chiamare la vasta area colpita dai terremoti del ’16. Dentro l’altopiano solo il borgo è dichiarato zona rossa, fuori dall’altopiano le strade di accesso sono interdette alla circolazione: per questo guardando le strade e tutti questi sentieri intorno mi viene in mente un muscolo cardiaco con tutta la rete dei suoi vasi tenuto isolato dal resto del corpo.

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Cosa c’è allora qua nel cuore. C’è silenzio e cielo azzurro, c’è il borgo ferito quasi a morte e la grande montagna che si alza dal deserto bianco della piana. C’è un brivido che corre, ed è quello che vai sempre cercando, quello che ti dice che finalmente ti sei scollegato e che sei al primo passo della comunione con lo spazio che ti contiene. C’è il borgo di Castelluccio che si alza verso il cielo con la linea delle case mezza morsicata: dentro a lottare sono rimasti i pochi e gli indomiti che oggi per cuocere la pasta scalderanno neve nelle pentole masticando l’amaro delle promesse spezzate. E non sto parlando di quattro montanari che si sono messi per traverso d’ignoranza. Sto parlando di una realta’ che tra turismo e agroalimentare smuoveva ogni anno una cosa come quattro milioni di fatturato con sessanta aziende e centinaia di posti di lavoro. Ora è tutto fermo: a oltre 15 mesi dal sisma Castelluccio non ha ancora né una Sae, né una struttura d’emergenza, né una strada. Da qui non li posso vedere: se ne stanno là nella loro cittadella, stanno insieme, sanno che la comunità deve essere alla base della ricostruzione, e continuano così a sfidare l’isolamento nonostante siano costretti ad affrontare già il secondo tosto inverno.
Ma il borgo mezzo crollato ha questo suo modo di puntare comunque verso l’alto, abbarbicato sulla cima del suo colle con dignità e speranza. Sarà questa giornata luminosa, sarà il bianco della neve, saranno le sue pietre antiche e avvezze ma Castelluccio urla le sue ferite verso la volta azzurra con una forza dannatamente bella.

Scatto una foto da lontano. Nella foto c’è il cucuzzolo con le case, la strada scura d’asfalto che lo raggiunge, le montagne innevate che si stagliano nel cielo blu e tanta bella luce. Sempre con i piedi sul trivio, il catino immenso mi contiene piccolo come un granello di polvere. Gli occhi corrono intorno animati dalla piccola scintilla che mi separa dall’essere polvere. Corrono, e leggono. Leggono la grande montagna che custodisce in grembo il lago maledetto: nell’Età di Mezzo, quando si sparse la diceria che avesse ingoiato il cadavere di Pilato, sulle sue rive è stato tutto un pullulare di eretici, negromanti e preti esperti di corde saponate, dacchè la Chiesa per scongiurare tutto quel traffichio eresse delle alte e belle forche. Leggono poi la linea fredda e metallica delle macchine da lavoro, una roulotte, rimorchi e capanni, e sopra incombente la linea della faglia che appare poco sotto la cresta della montagna. Corrono orizzontali, sono due righe di testo separate dalla quote ma unite in un tratto di narrazione comune, voci che generano un dialogo poi un coro vecchio di mille e mill’anni.
Non è solo storia recente. Da sempre il fugace e penato vivere dell’uomo ha dovuto fare i conti con il lento e inesorabile andare di quella faglia. Prendo il cellulare e posto la foto del cucuzzolo con le case e la strada accanto. Ora le linee diventano tre: la faglia, le sagome metalliche ferme nel deserto bianco, e la timeline dove l’immagine del borgo è caduta come una goccia nel mare. Io che non dovrei essere qui, ora ci sono un po’ più di prima che postassi roba sulla time line: arrivano like e condivisioni, un brivido infinitesimale corre nella grande rete neurale degli utenti, e di nuovo mi ritrovo all’intersezione di una triplice direzione. Vista dalla timeline l’altopiano è radioso e anche il borgo non se la passa poi così male: basta buttarla lì dicendo hey qui è una giornata okkey e qualcuno comincia a taggare i contatti nei commenti, in un niente arriva la voglia di prendere e partire, stanno chiedendo qual è la strada aperta per arrivare e allora aggiungo un granello di realtà rispondendo che non ci sono strade aperte alla circolazione per arrivare qui.

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Già, la realtà. Nel silenzio della radura dove restano quieti i rimorchi e gli arnesi e bianche e fredde le lamiere dei depositi e delle rimesse, c’è da districarsi ancora tra la massa di annunci e dichiarazioni e promesse di pronta e vera ricostruzione, tra le speculazioni e i feticci di “deltaplani” che soli dovrebbero riportare in alto le sorti del magnifico altopiano. C’è da farsi strada ancora, tra altri lugubri e penosi mucchi di roba venuta giù, le cui ombre si allungano non soltanto qui ma su tutto il cratere. Perché anche stavolta, sulle macerie delle case e dei cuori, sono crollate altre macerie ancora. Sono le macerie della realtà, quotidianamente sconquassata alle fondamenta, resa indistinta e vaga nel pulviscolo delle post verità, aperta nelle mura portanti dall’elastico di dichiarazioni enfatiche e smentite alla chetichella, una realtà rasa al suolo dal bispensiero e sistematicamente ricostruita in un luogo e in un tempo altri. Ma si sa che qui non facciamo certo eccezione. Quanto a percezione del reale tutto il mondo è cratere, non c’è un solo centimetro quadrato di crosta terrestre che non sia “a rischio sismico”. Non è la prima volta e non sarà l’ultima: puoi chiamarlo terremoto, shock, emergenza, crisi o attentato ma sempre sarà l’humus su cui impiantare le nuove narrazioni. Se non sarà il terremoto sarà un’altra rogna, ma ogni volta, dietro la maschera dell’incompetenza o dell’indifferenza o della corruzione, dietro il fatalismo delle braccia allargate, ci sarà una mano ferma ed esperta a tenere il bisturi. E la lama affonderà e aprirà la carne nel punto esatto dove si annida il male da estirpare. Perchè ad esempio, cose come una popolazione radicata, identitaria, costruita e strutturata sulle proprie tradizioni, tali sono per il nuovo organismo che si va modellando: un agente patogeno, una metastasi, un grumo di cellule non sufficientemente destrutturate per considerarsi degne di entrare nella gloria della nuova creazione.

Ora potremmo restare per chissà quanto altro tempo con il culo sulla faglia a crepare di gelo e di pioggia, a macerarci di male oscuro e a disseccarci sotto le lamiere arroventate. Potremmo continuare ad apparire e scomparire sotto le luci e i coni d’ombra dei riflettori mediatici. Potremmo morire e poi risorgere, potremmo anche riuscire a farcela, certo, in qualche modo. Ma non si tratta soltanto di ricostruire case, vite e comunità. Da tempo si è attivata una faglia, sebbene metaforica, molto più profonda e più intima che continuerà a scodare e vibrare, ad aprirsi sotto altri culi, sotto altre forme. E su questa non stanno soltanto case e affari e affetti, ma tutto ciò che è stato per secoli fondamento di una cultura sgorgata come un fiume, le società che ne hanno accolto i flussi come delle valli, le identità che se ne sono dissetate. Dunque ecco qua, sono a un trivio per celebrare il sabba ed evocare demoni dai nomi proibiti, in fretta e furia, mentre già albeggia e le macerie si rischiarano dei lumi del nuovo credo che sorge all’orizzonte. Farlo qui, su questi sentieri che per secoli hanno collegato Roma all’Adriatico e quindi all’Oriente fino ad Atene e Gerusalemme ha un sapore particolare.

Questi luoghi sono come un’arca: conservano una memoria, una pupilla li scruta da sempre densa e scura dalla cicatrice fresca della montagna madre, e nella pupilla stanno galassie di eventi e destini. Quando sarà momento di ricostruire bisognerà affondare la mano in tutto quel tempo ammassato, in tutta quella memoria, in quella Storia. Bisognerà scegliere bene e serbare ciò che si è scelto nel segreto di acque maledette. E in tutto quel mare, se i piedi vorrano restare testardi a calcare quest’altopiano, se sono queste le terre alle quali si vorrà continuare a chiedere vaticini, un’onda si incresperà più delle altre, un giorno brillerà più degli altri: il giorno che di là da occidente, da Subiaco, salirono quegli uomini raccolti nel saio. Camminarono e ancora camminarono sentendo che il cammino racchiudeva in sé le tre direzioni della loro regola: ora, lege et labora. Dalla città di Norcia seguirono il sentiero che ancora segna il passaggio sicuro sotto il Patino fin su alla Forca di Giuda. Attraversarono così la piana e svalicarono per vedere finalmente tutto il fondovalle che si apriva verso l’Oriente. Anche quello era tempo di macerie. Fisiche, sociali e spirituali. E quello che fecero quegli uomini, i Benedettini, fu alzare delle cittadelle: nelle mura dei monasteri e delle abbazie e nelle arche dei loro spiriti e delle loro menti. Coscienti della necessità di preservare un sapere inestimabile stiparono dentro tutto il salvabile e, mentre fuori cadevano ancora i resti di un impero fatiscente, insieme a Cristo sedettero in una grandiosa tavola imbandita Vitruvio, Ovidio e chissà quanti altri.
Come nel bianco di questa neve stanno fuse le frequenze dei colori che si separeranno esplodendo nella fioritura primaverile, è in questa memoria che si raccolgono le fondamenta e le radici di ciò che si sta frantumando lungo il fronte dell’onda d’urto: la nostra Identità. Non resta che costruire delle arche, altrimenti anche lì sarà freddo, indistinto e immobile cratere.

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