Di diavoli, cascate ed arcangeli.

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Le frazioni di Pozza e Umito sono fatte di poche case, sparuti gli abitanti, relativamente recente la strada d’asfalto che arriva fin qui: siamo nel cuore della Laga marchigiana, a ridosso di una sorta di trivio dove ai confini delle Marche si avvicinano quelli di Lazio e Abruzzo. Fino a metà del Novecento si saliva con un sentiero, da percorrere a piedi, caricando quel che c’era da caricare magari sul dorso dell’asino. Pochi collegamenti hanno causato abbandono e spopolamento, ma hanno dato anche modo di conservare tratti, atmosfere e tradizioni. Di quell’isolamento, come per una fascinazione, è rimasto un percettibile sentore nel denso silenzio, nelle selvagge altezze delle pareti d’arenaria che serrano la valle, nelle rare figure chine sugli orti; e in modo più tangibile di quel secolare isolamento parlano l’impianto urbano ancora intatto, con le belle case in pietra e i balconi in legno per alcuni traccia della presenza longobarda, e soprattutto in modo assai originale il curioso carnevale che qui si festeggia da tempo immemore: il Carnevale degli Zanni. Questo prende il nome dagli Zann, le caratteristiche maschere che indossano dei coloratissimi copricapi detti coccarde: la loro origine si pensa legata alla presenza dei Mastri Comancini, mitici costruttori provenienti dal Settentrione che spesso hanno frequentato questi territori nel loro febbrile operare, ma non mancano suggestive ipotesi che lo vogliono addirittura figlio dei riti sacerdotali dell’antica Roma, giunti facilmente a queste terre grazie alla Via del Sale, la vicina Salaria.

Quando metto gli scarponi la stretta valle è divisa perfettamente a metà sulla sua lunghezza in un versante in ombra e l’altro illuminato, i primi passi portano oltre le case di Umito su un’ampia sterrata, al suo fianco il torrente scroscia in un letto di arenaria. L’intenzione è raggiungere la vista della cascata della Volpara dove l’acqua da spettacolo con un salto di circa 800 metri: il sentiero per raggiungerla è dato come inagibile ormai da tempo a causa dei danni provocati da una valanga, ma voglio provare comunque a dare uno sguardo.

Più avanti da un lato si aprono i castagneti ben tenuti, erba verde e bassa, fanno pensare a templi diroccati con i massi levigati e invasi dal muschio a fare da rovine. Gli alti castagni hanno tronchi poderosi: con i rami ancora protesi verso il cielo, sono loro i sacerdoti rimasti a celebrare un culto dimenticato. La valle comincia a stringersi, un grande spuntone d’arenaria sembra la testa di un felino, il sentiero fa le sue curve, si guadagna quota. Ai castagneti si sostituisce una grande faggeta, sottobosco secco e silenzioso, i tanti esemplari secolari ancora immersi nel sonno tardo invernale. Dai loro tronchi diffonde uno spento grigiore, eppure siamo a ridosso del risveglio primaverile, eppure qualche giorno fa il Diavolo di Umito, prima figura ad aprire il corteo del carnevale, ha colpito la terra con il suo forcone e si è agitato caotico e forsennato facendo suonare con un chiasso acceso e squillante il campanaccio appeso alla sua cintura.

Egli è simbolo della sfera irrazionale, delle forse telluriche e delle energie caotiche del mondo naturale. Suo è il compito di risvegliare la natura, ma non ha facoltà di scatenare completamente il suo potenziale distruttivo: è infatti tenuto legato da una corda e a volte da una catena dal Carabiniere, tutore dell’Ordine e immagine del lavoro esperto, pesato e razionale che sarà compiuto dai contadini per rendere fruttuosa la terra. Dietro il diavolo e il suo custode cammina una coppia di sposi sposi seguita dal coloratissimo corteo degli Zann. In alcuni momenti gli Zann compiono dei balli concentrici attorno alla coppia di sposi, una scena che non può non suggerire un festoso rito propiziatorio di fertilità, un rito pagano che con molta probabilità ha trovato nelle licenze carnascialesche un rifugio dall’avvento del culto cristiano.

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Accanto al sonno dei faggi c’è il risveglio dei verdi, con l’elleboro e le foglie ornate dei ciclamini ma squilla anche il giallo acceso delle primule e il viola delle epatiche. Una forma scura e ipercinetica disegna spirali lungo un tronco. Sulle prime penso ad uno scoiattolo, mi avvicino: è un bellissimo esemplare di picchio. Un salto, un fruscio lontano e non lo vedo più. Mezz’ora di cammino e sono già al bivio con il sentiero per la Cascata della Prata, sarà sicuramente in ombra, il sole non è ancora alto a perpendicolo allora gioco la mia scommessa e tiro dritto: mi voglio godere la Prata al ritorno sperando di arrivare nel momento in cui la cascata illuminata darà il meglio di sé.

Il sentiero continua a salire alternando brevi strappi con tratti in piano che abbracciano i fianchi del monte. Non è certo lasciato al caso l’andamento di un sentiero, specialmente in queste zone dove i camminatori erano i boscaioli e i carbonai, tutta gente con la priorità di un percorso il meno possibile faticoso. Avevano la fissa del risparmio delle risorse e hanno fatto come il picchio, hanno distribuito il dislivello scegliendo la traiettoria meno dispendiosa. Sopra ancora attraverso dei guadi facili e la portata dei piccoli torrenti che scendono parla chiaro: è caduta poca acqua quest’anno, colpa della siccità certo, ma si ipotizza anche un riassetto delle falde acquifere con il sisma del ’16. Dopo un’ampia radura circolare che tradisce la presenza di una carbonaia, arrivo al Fornetto, piccolo forno artigianale ricavato sotto una cavità carsica che avrà sfamato (senza fare troppe domande) una moltitudine di pastori briganti e contabbandieri. Poco oltre si notano i segni della valanga: grandi tronchi sopra il torrente, proprio nel punto dove il letto levigato d’arenaria offriva degli scivoli naturali ai più spericolati.

Il sentiero è ancora libero sulla destra, sull’altro lato si vede bene tutto il fronte dove la massa di neve ha strappato e sradicato tutto quello che ha trovato da strappare: si vedono tronchi divelti, radici in aria e la lunga ferita di terra viva, ma il sentiero è libero, qualcuno vi ha messo mano tagliando i tronchi e depositandoli in quei mucchi poco lontani; finché non arriva l’ultimo strappo: la traccia quasi scompare tra i tronchi e le sterpaglie ma seppur lenti si riesce ancora a camminare. Tempo un quarto d’ora di imprecazioni e divincolamenti tra rami e tronchi e finalmente la Volpara si rivela. È visibile sulla destra, con l’acqua che dalla cresta ancora innevata della Macera della Morte compie i suoi salti vertiginosi. Anche qui la portata d’acqua sembra minore rispetto agli altri anni ma starla a guardare è sempre emozionante. Al ritorno scendendo, riscuoto anche la scommessa sulla Prata. La cascata è illuminata dal sole, ancora una portata minore del solito e nonostante la veste invernale della vegetazione è sempre viva nella sua bellezza pura ed assoluta.

Non manca molto per tornare al punto di partenza e ora che camminare è meno faticoso, la mente può randagiare liberamente. Ripenso a tutto il corteo degli Zanni. C’è solo un dettaglio che resta per certi versi ancora irrisolto. La figura del carabiniere sta ancora lì nelle immagini vive di qualche giorno fa con in mano la corda-catena che tiene legato il diavolo.

Considerato che il corpo è stato fondato soltanto due secoli fa, si può supporre che questa figura abbia indossato nelle precedenti edizioni del carnevale altre divise o uniformi. E proprio immaginando andando a ritroso nel tempo quali possano essere state queste divise, resta impressa una suggestione tutta da verificare: se c’è sempre stata una figura marziale a legare e soverchiare la figura del demone, dove togli la divisa, andando indietro puoi mettere un’armatura, e andando ancora indietro se accanto all’armatura metti un bel paio d’ali piumate, ecco più limpida dell’acqua di un torrente l’iconografia classica dell’Arcangelo Michele.

Forse sovrapposto al culto di Ercole molto diffuso tra le popolazione italiche dedite alla pastorizia, il culto micaelico ha lasciato diverse tracce da queste parti. Sicuramente una prima eredità fu lasciata dai Longobardi di stanza ad Ascoli e nella vicina Castel Trosino che si convertirono al Cristianesimo anche transitando nel culto dell’Arcangelo. Le belle Gole del Salinello, pure raggiungibili dalla vicina Ascoli, sono molto ricche di eremi e cenobiti e tra questi spicca per grandezza e importanza la Grotta dell’Angelo: dentro campeggia un affresco di San Michele bardato di elmo e armatura nell’atto di scagliare la sua lancia verso lo sconfitto Lucifero. La stessa linea micaelica solca il Monte dell’Ascensione, dove tra la costellazione di minuscoli borghi che popolano le sue pendici si nota Porchiano con la sua chiesetta di S.Michele.

Insomma qui il culto dell’angelo che si è preso l’onere di buttar fuori Lucifero dal Club ha la sua lunga storia, e guardare il carabiniere che lega con una corda, e in alcune edizioni con una biblica catena, la figura del diavolo che di lì a poco comincerà a dannarsi per le vie del borgo qualche dubbio o suggestione può lasciarli.

Al di là degli svolazzi della fantasia (forse favoriti dalle endorfine di fine escursione in circolo) resta comunque impressa la bellezza di questi luoghi: l’isolamento è stato il suo salvacondotto attraverso i secoli, l’amore degli abitanti per le proprie tradizioni la garanzia di poter ammirare in una forma pressoché intatta un testo vivente, pagine di un libro in forma di balli e visi rubicondi, tra faggete ancora immerse nel loro sonno invernale, castagneti che si ergono come sacerdoti tra rovine sacrali, salti d’arenaria dove l’acqua continua a scorrere e narrare la purezza dei primordi.

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P.S. Le info sul Carnevale degli Zann sono state prese da un testo molto interessante scritto da Ascenzio Santini. Lo potete trovare presso l’Agriturismo Laga Nord di Umito, che il signor Ascenzio e sua moglie gestiscono con passione e dove si mangia bene davvero.

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