cammino eremi gargano

Gargano: in cammino tra gli eremi di Pulsano.

La luce del mattino cade sull’abbazia, la sua pietra si accende rosea poi arancio man mano che il sole si alza sul cielo sgombro. Fin qui dopo molti chilometri fatti in autostrada a ridosso dell’alba. Ho deciso di partire sul presto. Sono settimane che in autostrada si formano code e ingorghi tra lavori in corso e viadotti sotto sequestro. Fuori dalla A14 a San Severo. Poi per San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo e si entra nel cuore del Gargano: l’isola ancestrale, divenuta promontorio con il ritarsi delle acque, lo sperone d’Italia, la Montagna sacra a guerrieri, pellegrini e pastori transumanti. Ogni tanto sul bordo strada i cartelli segnaletici dei sentieri della Francigena Micaelica, la grotta dell’Arcangelo è a un passo, dopo Monte Sant’Angelo la strada costeggia la campagna brulla ornata di muretti a secco e ulivi, vacche e asini brucano pigri i ciuffi d’erba.

Prima di fare l’ultimo tratto che porta al parcheggio dell’Abbazia di S.Maria di Pulsano c’è un grande cancello chiuso. Un cartello a lato dice di spingere il pulsante per aprire. Sotto c’è un pulsante. Sulle prime penso che quel cancello non si aprirà mai. Spingo il pulsante e il cancello si apre. Lascio la macchina nel grande spiazzo, metto gli scarponi e mi carico lo zaino. Già si vede il bordo roccioso di valle Campanile, il profondo vallone degli eremi. Sono molti gli insediamenti rupestri abbandonati ormai da tempo che punteggiano le pareti rocciose, alcuni sono inaccessibili, altri li si possono raggiungere per sentiero.

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L’ingresso dell’Abbazia di Santa Maria di Pulsano.

Quota 400 metri sul mare, si sta in alto ma non c’è traccia di vento. Un bell’esemplare di corvo imperiale gracchia alto nel blu mentre traccia il suo volo circolare. Il silenzio è teso, si sente il suono piumato dell’ala che rema nell’aria. Il sentiero che scende lungo il fianco della Valle dei Romiti si legge bene. A tratti è terra che striscia tra l’erba. Poi torna la nuda roccia segnata di passaggi secolari. Hanno molto lavorato i monaci, non solo per costruire gli eremi ma anche per collegarli tra loro: hanno inciso tracce e passaggi, hanno scolpito scalini sul bordo dei precipizi.

Il primo eremo che si incontra è quello di S. Margherita. Anticipa un po’ l’impostazione degli altri eremi: c’è una parte naturale, la grotta, e una parte artificiale fatta di murature di protezione, volte a botte e muri di terrazzamento.

Si scende ancora e si arriva alla biforcazione dove da una parte si apre il sentiero verso mare e dall’altra si imbocca per Valle Campanile. Prendo per questa seconda direzione, per la valle dove stanno la maggior parte degli eremi. Mano a mano che i passi si sommano su questi sentieri, echeggiano vive le parole di S. Atanasio nella sua Vita di Antonio: “e così apparvero dimore di solitari sui monti e il deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si erano iscritti nella cittadinanza dei cieli”. Gli eremi sono circa una ventina in totale, un villaggio diffuso, fiorito così in questa zona arida e impervia danno un’idea di come dovevano essere gli eremi fondati in Egitto da Sant’Antonio, considerato storicamente il primo eremita del Cristianesimo. Il vallone è ripido e stretto, verso mare strutture trasversali per frenare le piene, in fondo si apre il golfo di Manfredonia chiaro e luminoso, sul fianco opposto, su un alto spuntone di roccia l’eremo La Rondinella, inaccessibile a piedi; tengo la direzione, c’è uno strappo di dislivello poi tra appoggi accennati e scalini scolpiti si arriva all’Eremo del Mulino. L’ultimo tratto che porta all’entrata è uno stretto banco di roccia, a sinistra l’alto paretone e a destra la vista vertiginosa sul vallone. Sono fortunato, sono stati giorni secchi, in presenza di aria umida o pioggia dovrebbero diventare piuttosto infidi.

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Il sentiero di ingresso dell’Eremo del Mulino con la canaletta incisa.

L’Eremo del Mulino è molto ampio e strutturato. Ha vari ambienti da quelli dedicati alla preghiera a quelli per la vita di tutti i giorni, le celle per dormire, i piccoli orti terrazzati. In una nicchia scavata nella parete c’è la sede della macina, questa giace tra l’erba poco distante in uno dei terrazzamenti perimetrati dai muretti a secco. Senza dubbio è stata fabbricata sul posto.

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La macina da Mulino e l’eremo sullo sfondo

Per riprendere il sentiero bisogna uscire dall’eremo e scendere sulla traccia che piega verso il fondo del vallone, aggirare con un po’ di attenzione la base del costone di roccia dove poggiano i terrazzamenti e poi risalire attraversando un bell’arco naturale.

Già si vedono i ripidi scalini scolpiti che portano all’Eremo Studion. Una corda fissata alla roccia aiuta il passaggio. L’eremo deve forse il nome a San Teodoro Studita, si alternano ambienti rupestri e in muratura, scolpite sul fondo di pietra le canalette per la raccolta dell’acqua piovana: queste convergono verso un’ampia cisterna ricavata da un’apertura della roccia e un po’ fanno pensare a come saranno fatti secoli dopo i chiostri delle abbazie, cioè con un pavimento inclinato che converge verso il pozzo posto al centro del chiostro. Accenni di affreschi sulle pareti. Il rumore di una cascata in lontanaza che viene dalla parete opposta del vallone. Dall’apertura dell’entrata si vede oltre l’Eremo delle Carceri, anche questo non accessibile semplicemente a piedi, forse era davvero usato per punire casi di mancanza di disciplina o anche per periodi di reclusione volontaria.

Si sta nel cuore del vallone, con le pareti che si chiudono intorno. È dopo aver lasciato l’eremo del Mulino che è venuta in superficie questa sensazione: un qualche peso che sta dentro si alleggerisce, sembra galleggiare sopra un vuoto più denso. Quando si è chiusa la vista sul golfo, i bordi del vallone hanno formato una specie di coppa circolare. Il calice di roccia ora si sta colmando della luce a perpendicolo del mezzogiorno. Il tempo non riesce a sospendersi completamente, c’è sempre il rumore di quella cascata a dettare un ritmo e una frequenza. Bisognerebbe passare dei giorni qui, forse dei mesi perchè quel flusso divenga eternamente uguale a se stesso. Allora il tempo resterebbe sospeso e forse la percezione dell’eternità riuscirebbe ad aprirsi un piccolo varco proprio come fanno queste grotte: squarci nella roccia dai quali gettare lo sguardo verso una dimensione di luce.

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Si vedono tracce di sentiero anche sul versante opposto. Tagliando per un canalone nel fianco, con po’ di pazienza si potrebbe salire fin sopra, sul bordo del grande pianoro di Coppa la Pinta. Continuo però a camminare tenendo la destra orografica del vallone Campanile. Si continua a salire di quota. Guardandolo dall’alto, ora il grande incasso roccioso più che a un calice fa pensare a un chiostro dove invece delle colonne e degli archi c’è la roccia rosea e arancio intervallata dalle nere strisce delle infiltrazioni d’acqua. Si taglia il fianco del monte fino a raggiungere la sella dove convergono la valle dei Romiti e il vallone di Pulsano, il suo crinale ampio e aperto degrada verso mare. Sopra un reticolo di muretti a secco, vecchi ricoveri di pastori mezzi diroccati con il tetto sfondato, di nuovo la campagna con gli animali al pascolo, i primi esemplari fioriti di romulea, lo zafferanetto dai petali violacei e il cuore giallo. Un vento leggero arriva a spezzare finalmente il silenzio. Poco più di mezz’ora di cammino e sarò di nuovo all’abbazia.