Dormire in tenda in montagna, alcuni consigli.

Affrontare itinerari di più giorni, allargare il raggio delle nostre esplorazioni, avere un contatto ancora più stretto e immersivo con la natura e la montagna: questi e molti altri sono i vantaggi di avere una tenda nello zaino. Dormire all’aperto è decisamente un’esperienza emozionante ma da affrontare comunque con la giusta attrezzatura e le corrette informazioni.

Prima di tutto, è consentito il campeggio in montagna?

Si può dormire all’aperto liberamente? Ci sono delle regole per campeggiare in montagna?

Bisogna valutare caso per caso e fare attenzione alle normative aggiornate. Al momento ad esempio in alcuni stati europei come Norvegia, Scozia, Finlandia e Svezia il campeggio libero è sempre consentito. Occhio invece alla Corsica che lo proibisce categoricamente.

In Italia invece le norme che regolano il campeggio in montagna non fanno riferimento a una legge nazionale ma alle decisioni prese autonomamente da ogni regione.

Nel caso delle Marche ad esempio si può campeggiare non oltre le 48 ore nella stessa località facendo attenzione che non siano già presenti aree dove è autorizzato il campeggio e soprattutto previo invio della comunicazione al Sindaco del Comune interessato 24 ore prima della sosta.

Questo fuori dai parchi e e riserve naturali.

Attenzione quindi anche ai regolamenti interni dei Parchi Nazionali che possono introdurre ulteriori elementi restrittivi, prima di partire quindi, controllate lo stato attuale delle disposizioni informandovi tramite contatto diretto con gli enti preposti.

Al di là delle disposizioni burocratiche bisogna comunque attenersi alla distinzione tra campeggio e bivacco notturno tendato. Infatti in alta montagna le cose cambiano nel caso del bivacco notturno in tenda: montare la tenda e dormire in montagna per il solo tempo necessario, cioè nelle ore notturne dalle 20.00 alle 8.00 è un’attività che di solito è tollerata da quasi tutti i comuni e gli enti territoriali.

Dove piazzare la tenda in montagna

Fare una buona dormita alla fine di un trekking fa decisamente la differenza. Dormire il più comodi possibile e al caldo sono gli ingredienti per recuperare al meglio le energie da spendere nella giornata di cammino successiva. Dormire in tenda non è il massimo del comfort, importante quindi riuscire a piantarla in un luogo se non confortevole, almeno il più comodo possibile.

Di seguito alcuni fattori da tenere in considerazione.

Esegui un’esplorazione a largo raggio. Dedica del tempo per individuare attraverso la lettura del territorio il luogo più adatto per piantare la tenda. Evita luoghi come canali e valli che possono essere invase dal vento. Osserva i rami degli alberi, se sono rivolti in un unica direzione significa che quella è la direzione prevalente del vento. Cerca di avere almeno due lati della tenda protetti da una roccia o una costruzione o anche da bassi muretti costruiti sul momento.

Stai lontano dai letti dei fiumi. Avere l’acqua del fiume a portata di mano può essere allettante ma può diventare un problema nel caso di improvviso maltempo, con le forti piogge l’acqua potrebbe esondare e invadere l’area in cui hai piantato la tenda. Oltretutto se intendi bere l’acqua del fiume ricorda sempre di bollirla preventivamente oppure utilizza un potabilizzatore.

Particolari ambienti critici. Pareti rocciose, zone con terreno particolarmente ripido, ghiaioni e pietraie: meglio starne lontani in quanto soggetti a frequenti rilasci di materiale franoso. Occhio agli avvallamenti: anche se hanno un invitante fondo pianeggiante meglio evitarli se si valuta che possano riempirsi d’acqua improvvisamente in caso di pioggia.

Nel bosco con attenzione. Fai soprattutto attenzione a non mettere la tenda vicino ad alberi troppo isolati che potrebbero attrarre fulmini in caso di temporale.

Luoghi alti e panoramici. Ok ma con giudizio. Mettere la tenda in luoghi come come vette e promontori da sicuramente quel valore aggiunto in termini di viste panoramiche ma occhio al vento che potrebbe diventare molto violento e comunque fissate adeguatamente gli elememti della tenda se non volete che venga strappata o che i teli stiano a sbattere per tutta la notte. Soprattutto controlla sempre il bollettino del vento e non rischiare.

Attenzione alle tracce di animali. La nostra esplorazione a largo raggio per decidere dove piantare la tenda deve tenere conto anche di eventuali visite notturne da parte della fauna selvatica. Ci sono orme escrementi segni di scavo? Di quali animali si tratta? Trovarsi in piena notte nel mezzo di un branco di cinghiali potrebbe non essere piacevole.

Preparazione del terreno. Si può lavorare di gomito e rendere il terreno confortevole ripulendolo di tutti gli elementi di disturbo come pietre, rami e tronchi. Il terreno deve essere perfettamente pianeggiante? Nel caso fosse leggermente inclinato sarebbe ottimo per far defluire l’acqua in caso di pioggia. Naturalmente abbi cura di mettere la testa in cima e non in fondo alla zona inclinata se non vuoi che il sangue ti arrivi alla testa.

9 laghi tra Marche e Abruzzo belli da trekkare

Con i loro particolari riflessi, le atmosfere lente e rilassanti i laghi sono belli da vedere e da vivere. Si può indugiare sulle loro sponde per prendere il sole o per osservare le tante specie che li popolano, certo, ma quando sono incastonati tra i monti come alcuni laghi di Marche e d’Abruzzo allora non si può fare a meno di camminare zaino in spalla per godere degli splendidi contesti naturali che offrono i loro dintorni.

Qui di seguito vi diciamo quali sono i laghi delle Marche e d’Abruzzo ai quali arrivare o dai quali partire con escursioni e trekking di varia difficoltà che aggiungeranno bellezza a bellezza, per un’immersione totale in quelli che sono tra i paesaggi più belli del centro Italia.

Laghi nelle Marche

Lago di Fiastra

Frequentatissimo in ogni stagione dell’anno le sue rive si prestano per piacevoli passeggiate che d’inverno dopo corpose nevicate possono diventare ciaspolate davvero scenografiche. È punto di partenza per due tra le escursioni più conosciute dei Monti Sibillini ovvero il facile itinerario che conduce al celebre canyon delle Lame Rosse e quello un po’ più impegnativo della traversata delle Gole del Fiastrone. Per i più allenati le due mete possono essere incluse in un trekking ad anello super suggestivo che include anche la Grotta dei Frati, una cavità naturale che fu sede di un eremo.

Laghi delle Marche Fiastra
Lago di Fiastra (foto @ilgrandetiglio)

Lago di San Ruffino

Altro lago artificiale marchigiano, rientra nel territorio del comunale di Amandola. Bacino idrico nato per rifornire d’acqua le coltivazioni della bassa valle del Tenna d’inverno è completamente vuoto mentre viene rimepito con la bella stagione. Si può camminare sulle sue rive con i Sibillini sullo sfondo e ammirare molte specie di volatili come aironi bianchi e cenerini, svassi, folaghe e garzette. Si può allungare la camminata percorrendo la comoda sterrata verso ovest che fu sede dell’antica ferrovia poi smantellata che dall’Adriatico arrivava fino ad Amandola. Irrinunciabile anche una visita all’Abbazia di San Ruffino, gioiello romanico molto ben conservato.

Laghi delle Marche San Ruffino
Lago di San Ruffino (foto @stepom)

Lago di Pilato

Unico lago naturale delle Marche, di origine glaciale è posto nel cuore del complesso del Monte Vettore, sui Monti Sibillini. Celebre per le molte leggende legate a storie di maghi e negromanti che frequentavano le sue rive, è l’unico luogo al mondo ad ospitare il Chirocefalo del Marchesoni, un piccolo gasteropode specie relittuale dell’ultima glaciazione. Ci sono vari trekking che conducono al lago: tutti estremamente suggestivi e di forte impatto, richiedono un buon allenamento. Si può partire dalla frazione di Foce di Montemonaco e risalire tutta la valle antica sede del ghiacciaio, oppure da Castelluccio di Norcia svalicando il passo di Forca Viola. Altro itinerario è quello che da Forca di Presta sale fino al Rifugio Zilioli e ridiscende nella conca glaciale (attenzione massima al passaggio detto delle Roccette).

Laghi delle Marche Lago di Pilato
Lago di Pilato (foto @anastasiam)

Lago effimero di Sasso Borghese

A primavera, ai piedi del massiccio calcareo di Palazzo Borghese, grazie allo scioglimento delle nevi si forma questo caratteristico lago effimero che ospita il Chirocefalo della Sibilla cugino del più famoso chirocefalo che nuota nelle acque del Lago di Pilato. Ci sono a disposizione poche settimane per poterlo ammirare nella sua curiosa forma simile a un cuore prima che dissecchi completamente. Per raggiungerlo si può partire da Foce frazione del comune di Montemonaco con un trekking di media difficoltà attraversando belle faggete e prati sommitali. Godendo di splendidi affacci sul Monte Sibilla e sulle creste di uno spettacolare circo glaciale. meraviglia si aggiungerà a meraviglia sulle rive del lago dalle acque cristalline con la vista ultra ravvicinata dell’imponente parete calcarea del Sasso Borghese.

Laghi delle Marche Palazzo Borghese
Lago di Palazzo Borghese foto @wabik

Laghetto del Girella

Siamo nel comprensorio dei Monti Gemelli: partendo dalla frazione San Giacomo di Ascoli Piceno percorrendo il sentiero che porta alla vetta del Monte Girella si incontra questo piccolo specchio d’acqua. Colpirà subito la sua forma circolare, all’ipotesi di un’origine glaciale si è aggiunta da poco quella molto suggestiva secondo la quale la forma rotondeggiante sia dovuta all’impatto di un meteorite, il cratere si sarebbe poi riempito d’acqua dando origine al laghetto. Di certo c’è la presenza nelle sue acque del tritone crestato, un anfibio presente con un grande numero di esemplari che possono essere facilmente avvistati grazie ai loro movimenti che increspano la superficie dello specchio d’acqua.

Laghi delle Marche Girella
Lago del Girella (foto @yesabruzzo)

Laghi in Abruzzo

Lago di San Domenico, lago Pio e lago di Scanno

Tra i laghi in Abruzzo assolutamente da visitare, sono molto vicini tra loro, possono essere infilati con un trekking di media difficoltà ma dal sicuro impatto paesaggistico e panoramico. Dal bacino artificiale di San Domenico, da dove originano le celebri Gole del Sagittario si ascende al centro abitato di Villalago che si sviluppa lungo uno stretto crinale. Lasciato Villalago alle spalle si può riprendere fiato lungo le sponde del piccolo lago Pio per poi ricominciare a camminare in direzione del lago di Scanno. Non sarà difficile intercettare il sentiero che porta al punto panoramico dal quale si può osservare il lago nella sua celebre forma a cuore. Non rinunciate assolutamente a una visita della splendida Scanno.

Laghetti di Poggio d’Api

In provincia di Rieti ma molto prossimi ai confini di Abruzzo e Marche, sono piccoli specchi d’acqua naturali incastonati come due perle nelle grandi foreste del versante settentrionale dei Monti della Laga. Sono facilmente raggiungibili dalla località omonima con una camminata che trasporta nel pieno della particolare atmosfera di questi monti. Splendidi i boschi intorno in tutte le stagioni e in particolare d’autunno quando i colori del foliage esplodono in tutta la loro bellezza. Anche d’inverno con le ciaspole ai piedi sono meta di escursionisti che li raggiungono per ammirare quella che è sede di un’oasi naturalistica affidata al WWF.

Laghetti di Poggio d’Api. (foto Luciano Brandimarti)

Lago di Campotosto

Incastonato tra i Monti della Laga e il Gran Sasso d’Italia questo grande bacino artificiale è tutelato come Riserva Naturale dello Stato. Il suo ecosistema ospita varie specie di uccelli come l’airone e lo svasso maggiore e tante anitre selvatiche, folaghe e moriglioni nei mesi invernali. Dalla caratteristica forma a V si presta per lunghe passeggiate sulle sue rive ma anche come punto di partenza per escursioni nei suoi dintorni. Tra questi meritano decisamente l’itinerario che conduce al Monte di Mezzo da quale godere di una vista panoramica sul lago e la lunga e impegnativa ascesa al Monte Gorzano che con i suoi 2458 metri è la vetta più alta dei monti della Laga.

Laghi in Abruzzo Campotosto
Lago di Campotosto. (foto @marcos.erre)

Laghetto Pietranzoni

Forse uno degli specchi d’acqua più fotografati d’Italia, grazie alla cornice dell’altopiano di Campo Imperatore e soprattutto alla vista superba del massiccio del Gran Sasso d’Italia che svetta sullo sfondo. Piuttosto piccolo (60 metri di diametro, 200 metri di perimetro medi), molti sono i sentieri che possono essere percorsi attorno al laghetto alcuni molto abbordabili come quelli che rimangono sul livello dell’altopiano altri molto più tecnici come quelli che convergono verso il Brancastello e il Sentiero del Centenario. Percorrendo in auto qualche chilometro in più si può partire da Campo Imperatore per la classica ascesa al Gran Sasso oppure in direzione opposta si può intercettare il sentiero che attraversa il caratteristico canyon dello Scoppaturo.

Cammino dei Borghi Silenti in 4 giorni

Il Cammino dei Borghi Silenti è un percorso ad anello di 90 km circa che si sviluppa nella parte sud est dell’Umbria alle pendici dei Monti Amerini. Zona prevalentemente collinare è contraddistinta da campagne e boschi che compongono il cuore verde di questo cammino. Le cime che si incontrano non sono aspre, il percorso si sviluppa tra collina e media montagna, attraversa campi e coltivi, grandi boschi ma soprattutto i piccoli borghi medievali molto caratteristici e ben tenuti che danno il nome al cammino.

Prepararsi al cammino: la mappa e la guida. Quando andare, dove mangiare, dove dormire.

Primo passo per iniziare è richiedere la guida cartacea e la credenziale seguendo le indicazioni del sito ufficiale del cammino. Queste verranno spedite via posta, verranno inoltre messe a disposizione le tracce gpx dell’intero percorso arricchite di indicazioni e waypoints. La credenziale è importante per essere accreditato come pellegrino del cammino e accedere ai servizi riservati.

Con la guida cartacea verrà allegata anche la ricca lista di tutte le strutture ricettive dai bar agli alimentari, fino ai ristoranti e le farmacie e soprattutto le strutture adibite per il pernotto.

Queste vengono identificate anche tramite il tipo di compenso che richiedono che può essere a seconda dei casi un donativo o una quota fissa. Sono anche indicate le zone dove è possibile campeggiare per chi vuole fare il cammino dei borghi silenti in tenda.

Il cammino è comunque segnato benissimo con segnaletica chiara, non ambigua e frequente. Può essere percorso in tutti i periodi dell’anno, facendo attenzione ai periodi più nevosi. Se andate nei mesi estivi abbiate cura di prenotare con buon anticipo perché potreste incontrare frequenti sold out. Se invece scegliete i mesi del tardo autunno e quelli invernali contattate le strutture qualche giorno prima perché alcune potrebbero essere chiuse o momentaneamente inattive.

Cammino dei Borghi Silenti, le tappe.

Il cammino è diviso in 5 tappe che lo rendono fruibile anche per gambe non allenatissime. La difficoltà di ogni tappa è scalata, per distanza e dislivello, su quella standard dei cammini più conosciuti: naturalmente è richiesta buona forma fisica e abitudine al cammino, ma è un ottima first time per chi non ha mai vissuto l’esperienza di un viaggio a piedi di più giorni.

Di seguito la descrizione del cammino dei Borghi Silenti in 4 tappe cioè come l’ho percorso nel mio sopralluogo a inizio novembre 2021. Ciò che può saltare all’occhio di queste tappe e intimorire al primo approccio il camminatore sono i dislivelli in salita. Considerevoli per tappe di media difficoltà ma distribuiti su chilometraggi che permettono di spalmare la salita su percorsi che solo raramente e per brevi distanze presentano strappi faticosi: il tracciato del Cammino dei Borghi Silenti è stato pensato e progettato con molta cura e la bontà del risultato è riscontrabile tra l’altro anche nelle gestione dei dislivelli in salita. Confermo l’alto valore paesaggistico e storico del cammino ma soprattutto l’ottima organizzazione e l’ospitalità super calorosa della gente del luogo sempre pronta ad accogliere il viandante e ad assisterlo con mille premure indicazioni e consigli.

Tappa 1 da Montecchio a Melezzole.

(Distanza 30 km, dislivello 1100 m)

La tappa più dura di tutto il cammino, da affrontare il primo giorno e quindi con il serbatoio pieno di energie fresche. È la tappa che ci permette di macinare km e quindi comprimere il nostro cammino nei quattro giorni. Chi viene in auto può lasciarla nel parcheggio libero e tranquillo di Montecchio dove ci sono anche colonnine di ricarica per le ibride. Si cammina tra le campagne per comode sterrate. Primo guadagno di dislivello per giungere a Piano Croci quota 731 m punto più elevato della tappa con una sterrata che sale comoda e senza strappi. La tappa diventa tosta negli ultimi km quando si torna a salire dalla Tenuta dei Ciclamini a Toscolano con uno strappo piuttosto impegnativo considerando anche si hanno sulle gambe gran parte dei km della giornata. La fatica verrà ripagata dalla bellezza degli splendidi borghi di Tenaglie, Santa Restituta, Toscolano e Melezzole.

Per chi vuole rendere la tappa più leggera, sottraendo chilometri e dislivello in salita, può percorrere la variante indicata sulla guida che da Santa Restituta porta direttamente a Toscolano: la tappa si accorcerà di 5 km e 200 metri di dislivello.

Tappa 2 da Melezzole a Morre.

(distanza 17,2 km, dislivello 814 m)

A inizio tappa subito ci impegnano i circa 400 m di dislivello per salire in vetta al Monte Croce di Serra. I suoi 996 m di altitudine lo rendono il punto più alto di tutto il cammino, ovviamente super panoramico: se avete un binocolo e l’orizzonte è particolarmente limpido potete inquadrare anche la cupola di San Pietro a Roma. Attenzione ai tratti in discesa un po’ più ripidi quando si lascia la vetta alle spalle, preparatevi quindi ad una full immersion in un castagneto favoloso e spettacolare. I borghi silenti che vi aspettano con i loro gioielli sono Morruzze e Morre. Tenere conto che quest’ultimo è l’unico dei due dotato di un bar, un alimentari e una locanda dove cenare.

Tappa 3 da Morre a Cerreto.

(distanza 22 km, dislivello 716 m)

Primi 12 km per andare a incrociare i borghi estremamente suggestivi di Collelungo e Acqualoreto. Arrivati all’eremo della Pasquarella preparatevi alla sfacchinata sulla ripida salita che vi farà arrivare al borgo di Scoppieto. Per gli appassionati di archeologia si consiglia una visita all’area archeologica poco prima del borgo dove è stata portata alla luce una fornace di epoca romana.

Da Scoppieto si scende agevolmente fino ad arrivare alla notevole Civitella sul Lago con i suoi vicoli caratteristici e lo splendido affaccio sul lago di Corbara. La tappa potrebbe chiudersi qui, ma noi abbiamo preferito proseguire per altri 4 km scendendo tra le fonti storiche di Civitella, le spettacolari vigne affacciate sul lago fino ad arrivare al piccolo Cerreto immerso nelle campagne dalle atmosfere d’altri tempi.

Tappa 4. da Cerreto a Montecchio.

(distanza 21 km, dislivello 780 m)

Altra tappa che ci regala viste da cartolina su splendidi vigneti fino a raggiungere per comode sterrate il borgo silente di Baschi. Prendetevi del tempo per girovagare tra i suoi vicoli labirintici che in alcuni casi diventano quasi delle gallerie artificiali note con il nome di “buchi di Baschi”. Non dimenticate una volta lasciato Baschi alle spalle di fare una bella foto panoramica allo skyline del paese con la Chiesa di San Niccolò e le case alte e strette come mura fortificate dell’antico quartiere popolare. Ora vi aspettano gli ultimi 12 km per chiudere l’anello: godetevi la splendida vista sulle aree calanchive a ridosso di Montecchio e non dimenticate assolutamente di visitare la necropoli etrusca di San Lorenzo. Ultimo sforzo per affrontare la salita breve ma ripida che vi porta fino a Montecchio e chiudere così l’anello del Cammino dei Borghi Silenti.

Questo è il link del sito ufficiale del cammino per tutte le info dettagliate, per richiedere la guida, la credenziale e le tracce file.

Come vestirsi per camminare con le ciaspole.

Il trekking e le attività outdoor invernali si stanno sempre più diffondendo grazie alle ciaspole o racchette da neve, un dispositivo che sta diventando molto familiare tra gli appassionati di camminate invernali. Panorami incantati, boschi innevati e la splendida sensazione di stare quasi galleggiando sulla neve sono solo alcune delle emozioni che ci può regalare una ciaspolata.

Uno dei motivi del successo di questa attività è dovuto al suo basso costo e alla facilità di apprendimento: basta acquistare un paio di ciaspole o noleggiarle, metterle ai piedi e già dopo i primi passi abbiamo preso confidenza con l’attrezzatura.

Pronti a camminare con le ciaspole? Quasi. Non bisogna dimenticare un altro dettaglio importante: l’abbigliamento per una ciaspolata. Forniamo allora una lista dell’occorrente, una piccola guida su come vestirsi per andare con le ciaspole per immergerci negli spettacolari paesaggi innevati.

Molti camminatori, magari senza saperlo, scopriranno di avere già nel loro armadio sezione trekking tutto l’abbigliamento necessario.

Allora, una volta procurate le ciaspole come vestirsi?

Lo schema è il solito, ci si veste a strati o a cipolla come per le normali escursioni tenendo però in conto di dover affrontare temperature rigide. Vestirsi a strati permette in ogni momento di avere pieno controllo sulla temperatura del nostro corpo al variare delle condizioni ambientali.

Partiamo quindi dallo strato intimo.

Quando si cammina in inverno la cosa più importante è rimanere all’asciutto, altrimenti appena ci fermiamo il sudore intrappolato inizierà a raffreddarsi e con esso il nostro corpo. Evitare dunque maglie in cotone che tendono a trattenere il sudore. Orientarsi su maglie termiche di tessuti sintetici o ibridi con la lana, materiale antico ma ottimo per queste funzioni. Di strati ne esistono un po’ per tutte le tasche, personalmente ho avuto esperienza soddisfacente con gli strati e le maglie termiche del Decathlon contraddistinti da un ottimo rapporto qualità prezzo.

Passiamo dunque allo strato intermedio.

La tipologia più gettonata è il pile. Ve ne sono di più tipi, che si dividono prevalentemente tra quelli con la manica lunga e il gilet smanicato. Forse il secondo resta più versatile in prospettiva di camminate di inizio primavera quando ancora è presto per le alte temperature ma non siamo nemmeno esposti a improvvisi cali termici. Comunque devono essere dotati di zip sul davanti per aprirli in caso di necessità. Se praticate running anche di inverno avrete sicuramente nei vostri cassetti una giacca per le giornate più fredde che funzionerà perfettamente anche come strato intermedio per le vostre escursioni invernali.

I pantaloni per le ciaspole

Se avete i pantaloni da sci, possono andare bene anche per le vostre ciaspolate essendo impermeabili e proteggendo dal freddo, ma potrebbero risultare un po’ troppo rigidi per i movimenti che contraddistinguono l’attività della camminata che richiede libertà di movimento. Esistono pantaloni tecnici per trekking invernali che sono morbidi, impermeabili e che garantiscono un buon grado di protezione. Naturalmente anche questi potranno essere utilizzati dopo il disgelo o nelle giornate più fredde anche senza la presenza della neve. Dimenticate completamente pantaloni di velluto e jeans che hanno la fastidiosa capacità di inzupparsi irrimediabilmente dopo appena pochi passi.

Che scarpe si mettono con le ciaspole?

Primo e unico comandamento: evitare doposci, moon boot e simili. La conformazione della suola non darebbe la possibilità di agganciarsi agli attacchi della racchetta da neve. Vanno invece bene scarponi da trekking invernali alti alla caviglia e soprattutto impermeabili ovvero dotati di membrana goretex e simili. Se siete proprio alle primissime armi va bene lo stivaletto con suola scolpita ma dovrete mettere in conto le infiltrazioni che in poco tempo raffredderanno in modo molto fastidioso il piede.

Le ghette. Importantissime.

Un capo di abbigliamento “ottocentesco” e passato in disuso ma che per le nostre ciaspolate risulta irrinunciabile specialmente in caso di neve fresca e alta. Le ghette vanno a proteggere parte della scarpa e tutta la parte della gamba sotto il ginocchio garantendo un ulteriore barriera contro freddo, neve e acqua rendendo la nostra camminata asciutta e confortevole anche dopo molte ore di escursione.

Calze da trekking.

Sono il capo a diretto contatto con il nostro piede che deve essere mantenuto sempre caldo ed asciutto, dobbiamo quindi sceglierle in modo attento e oculato. Come per lo strato intimo prediligere quelle con formula sintetico e lana, alti fino a sotto il ginocchio. Evitare di mettere calzini non tecnici perché il pericolo di fastidiosissime vesciche sarebbe sempre in agguato.

Il guscio impermeabile.

É vero, può andare bene anche una giacca a vento pesante o una giacca per lo sci ma il guscio impermeabile è un capo importante non solo per le ciaspolate ma anche per gran parte delle escursioni che andremo ad affrontare quando è previsto il rischio di meteo freddo o incerto. Un buon guscio per l’outdoor impedisce all’acqua o alla neve di entrare dall’esterno e permette all’umidità prodotta dal nostro corpo di traspirare verso l’esterno. I due grandi gruppi di gusci sono i soft shell che hanno membrane leggere quindi più comode ma meno protettive e gli hard shell pensati per le condizioni meteo che potrebbero metterci un po’ più alla prova in termini di vento pioggia o neve.

Last but not least aggiungete alla lista guanti, cappello e un bel buff la fascia tubulare super versatile. Super consigliata la linea polar.

Se volete partecipare a una delle nostre ciaspolate di gruppo potete consultare i nostri prossimi trekking oppure tenere d’occhio la sezione eventi della nostra pagina Facebook.

Idda

Pendici dell’Etna. Alle tue spalle piazze vuote e colme di luce abbacinante, pullman inchiodati alle fermate ansimanti con i condizionatori al massimo, mucchi di cenere lavica ai bordi delle strade, le strutture delle luminarie per la festa del patrono come ragnatele bianche con le lampadine spente per rugiada. Cos’altro? La strada asfaltata che dalle pendici sale fino al rifugio: la Mareneve ha questo nome che sa di legami tra cose distanti, di passaggi di stato, di metamorfosi; mentre l’hai percorsa canticchiavi un pezzo di Battiato e ti sei trovato tra nere muraglie, colate di lava che si sono sovrapposte decenni dopo decenni un’eruzione dopo l’altra. Il classico paesaggio lunare hai pensato, ma poi ti sei accorto di essere caduto come in contraddizione: paesaggi lunari ti passano in rassegna dalla lunga schiena dell’Amaro della Majella fino alle orbite cave della valle del Pilato. Bianchi deserti calcarei che sono il contrario di questo, nero e fertile com’è tra vigne e ulivi, fichi d’India e frangipane.

A lato strada appare subito il sentiero, poco prima del rifugio. Passi che affondano leggeri in terra nera, betulle come candide braccia alzate a salutare il sole alto nel cielo. Oltre le betulle il sentiero si scopre e mentre cominci a sudare sotto il sole ti stupisci di come le cose si stanno rovesciando: hai in mente questo yin e yang di pietra lavica e calcare massiccio, hai il bianco sterile e il nero fertile, dal lato oscuro della luna penzolano capperi e pomodori maturi.


Cenere lavica sulla Mareneve.

E poi hai questa montagna: Idda ovvero “Lei” come la chiamano con il loro bel dialetto i siciliani. Per raggiungere la vetta cioè il cratere avresti l’imbarazzo della scelta: tra guide, ascese mezze in jeep e mezze a piedi, i siti che offrono servizi per conquistarla si sprecano. Ci stavi facendo un pensiero poi hai letto quel fatto curioso, cioè che l’Etna è cresciuto di circa 30 metri: è successo che con gli ultimi fenomeni eruttivi il cratere di sud est è diventato più alto, è arrivato a quota 3357 superando così il cratere di nord est che è rimasto al palo dei suoi 3326. Ti saresti così ritrovato a salire verso una vetta che già domani o dopodomani potrebbe non essere più la vetta, perché magari Idda avrà voluto accovacciarsi un po’ di più o alzare una delle sue ciocche brune un po’ più in là. Fatto sta che ora sei salito abbastanza per scorgere il cono nero, ti starà a non più di due chilometri in linea d’aria mentre tutto il fondovalle digrada fino a inchiodarsi sulla linea azzurra dello Ionio.

Proprio ieri te ne stavi a prendere il sole su una di quelle spiagge nere con i ciottoli metamorfici tondi e grandi come meloni. Idda era anche lì, anche quella spiaggia stava sulla sua pellaccia che poi continuava a scendere dentro al mare; le sue colate più o meno antiche sprofondavano ancora con le forme di lingue e gambe e tentacoli chissà fino a dove nel fondo del mare.

Capisci allora di stare addosso a questa cosa che cresce e avanza da due fronti, da due estremità. Da una parte il cratere che sale verso il cielo e dall’altra le propaggini che vanno ingoiando terra e mare. Capisci che non potresti comunque raggiungerle: sono in continua mutazione, e anche riuscissi a camminare per millenni non raggiungeresti mai la sua forma definitiva semplicemente perché Idda una forma definitiva non l’avrà mai. Stando così le cose la vetta non può essere la tua meta, ecco perché oggi hai scelto di camminare fin qua, a quota intermedia.

Gli alberi hanno lasciato spazio a grandi cespugli di camomilla. Poi più in alto i cuscini di astragalo e saponaria scatenano quella sensazione da paesaggio di mondi alieni. Sullo sfondo lattiginoso e carico d’afa è visibile la linea del cono del vulcano.

Idda all’orizzonte.

Idda sta muta oggi, giusto un flebile pennacchio che sfuma nell’azzurro. Tra due minuti o due anni – cosa importa? – può ricominciare il suo discorso lasciato interrotto. É da lì, da quella bocca, che si può accedere ai suoi pensieri invisibili, e si sa: dalle bocche i pensieri prendono forma e diventano discorsi e concetti e così Idda fa con i suoi pensieri, con quel mare inconscio e informe che le nuota nelle viscere: vomita il suo flusso di coscienza, il magma che andrà a nutrire e modellare le sue estremità dalla terra al cielo. E la sua vetta guadagnerà altre decine di metri, e le sue gambe dai piedi palmati, i suo tentacoli, le sue radici affonderanno ancora dove l’azzurro si comprime nel cobalto.

Devi allora ripensare i termini della questione, devi dimenticare che questa sia una montagna come le altre. Meglio ancora dimenticare che sia una montagna, che non ci sia un alto e un basso, una vetta e una base.

Idda è il contrario di una candela che si consuma a entrambe le estremità, deve allora somigliare a qualcosa che va espandendosi sia da una parte che dall’altra: così, siccome fa una caldo cane e non vuoi perdere troppo tempo, vai subito a parare in terre geometriche: Idda può essere pensata come una retta con i suoi estremi che vanno e che crescono chissà fino a dove e chissà fino a quando.

Hai rappresentato quei suoi estremi tante di quelle volte: li hai fatti con la penna o la matita come un tratteggio nemmeno troppo lungo.

Tanto si capiva come sarebbe andata: un tratteggio sa di indefinito, qualcosa che appare e scompare, come le gobbe di un mostro marino squamato d’inchiostro che nuota sotto il pelo della pagina bianca. Un tratteggio insomma sa di indefinito e nel caso della retta prelude all’infinito. E a chi ti dice che una retta è troppo striminzita per rappresentare una montagna dirai che in ogni suo tratto per quanto piccolo è densa di numeri quanto una montagna lo è della sua materia. Ci puoi beccare addirittura quei punti di accumulazione dove la curva della sua energia si addensa e si comprime, dove la rabbia di Idda diventata asintotica trabocca ed erutta.

Tracciata la retta devi comunque avere un riferimento: hai bisogno del tuo zero insomma. Sarà poco, ma in questi casi può significare tutto. Hai messo la tua montagna, la tua creatura, lungo un orizzonte materico densamente popolato. Per avere il tuo zero, lo devi far necessariamente attraversare a perpendicolo da un’altra retta tutt’altro che tellurica; verticale, forse abissale, conficcata nel cuore di un luminoso cratere di silenzio, sicuramente orientata verso la sfera di cieli azzurri e nuovi.


La bocca di Idda e la depressione della Valle del Bove.

Ora che stai salendo lungo la cresta della Serra delle Concazze, la Valle del Bove ti si apre come un abisso colmo della luce estiva. Ti vengono in mente le immagini trasmesse dalle sonde marziane: le rocce brulle, le ombre delle attrezzature delle sonde proiettate sul terreno. La valle è una profonda depressione dal fondo quasi piatto, si vedono delle scarpate molto ripide alte svariate centinaia di metri. Provi a immaginare le cascate di lava che hanno modellato quei salti. Tutto intorno si alzano i dicchi, gli alti pinnacoli di basalto. Il vento si rafforza, ma il passo è sicuro sulla superficie di questa viva luna dalla carne nera. Ti torna in mente quella canzone di Battiato: è dall’altro giorno che ti è rimasta in testa, quando sei andato a Milo, il piccolo paese alle pendici dell’Etna dove il musicista ha vissuto per molto tempo fino alla morte. Non ci hai messo molto a trovare la sua ultima residenza. Sul portoncino c’erano dei fiori freschi, da quando è mancato c’è sempre qualcuno che va lì a posarli.

É lo stesso portoncino con le scalette e la ringhiera che si vede nel videoclip con Carmen Consoli, quello dove se ne vanno in motocicletta sulla Mareneve: le due voci cantano all’unisono, sulla stessa tonalità, fin quasi a confondersi; le tute nere da motociclista li rendono anonimi e indistinguibili, due particelle elementari che gareggiano e si rincorrono nella danza dell’entanglement, su verso Idda e la sua bocca.

Oltre il muro di cinta hai visto gli alti alberi del giardino e anche uno spigolo della veranda. Sei sul punto più alto della cresta e finalmente a forza di rimuginare hai trovato il tuo zero. Franco Battiato nominava spesso quella veranda: è dove al mattino presto meditava, era un po’ il campo base da dove partivano le escursioni del suo pensiero, da dove si irradiavano le linee di viaggi mistici e creativi.

É in quella veranda, ha raccontato, che ha avuto come in una illuminazione netta e improvvisa l’idea chiara e completa di quel suo pezzo, “L’ombra della luce”, che forse è uno dei pochi che ti fa venire i brividi anche dopo il milionesimo ascolto.

La linea melodica del cantato sembra possedere una gravità propria, una forza capace di catturare e trasportare verso quelle “zone più alte, in uno dei tuoi regni di quiete” citate nel testo. Il titolo sembra un ossimoro o una contraddizione in termini: la luce, la radiazione luminosa non può avere un’ombra, non nel mondo fisico almeno; e allora l’unica soluzione è proiettarsi in una dimensione altra e ortogonale: la contraddizione diventa analogia, aiuta a sfiorare almeno l’idea di cosa possa esserci dall’altra parte.

Non può che passare per quella casa di Milo la retta verticale che andavi cercando: da un estremo l’infinito dell’intelletto creativo dell’artista e dall’altro il suo spirito orientato e teso verso cieli trascendenti.

Stai scendendo per chiudere l’anello al rifugio. Costeggi le colate del 1928 poi il sentiero si cancella in un canalone, il piede affonda nei molli depositi di ghiaia lavica. Qua e là gialli ciuffi di piante pioniere. Questo tratto ha un che di limbico, di transitorio. Alle spalle i bastioni di cresta che fanno da scudo al cono del vulcano, davanti a te dove finisce la ghiaia si vede la linea del bosco, prima i faggi poi più sotto le betulle con le foglie agitate dal vento. Domani aggiungerai l’ultimo tassello al tuo viaggio. Andrai giù, vicino al mare, dove sulla pelle di Idda hanno costruito un piccolo cimitero. Troverai le lapidi a terra coperte da uno spesso strato di cenere lavica: Idda non molla, continuerà a mangiare e ingoiare e digerire, a fondere e forgiare e trasformare. Ma qui è come se la sua fame si fosse infranta contro un muro: questa madre dal cuore di mille atomiche oltre la materia non può più nulla.

Chiederai al custode dov’è la tomba del Maestro Battiato e lui ti dirà con esattezza quale corridoio prendere, quali scale salire e dove svoltare per arrivare alla cappellina di famiglia. Lì troverai una lapide di una semplicità disarmante: nessuna foto, nessun epitaffio. Solo cognome e nome, Battiato Francesco. Data di nascita, data di morte. Come per dire che la morte non è che un dettaglio: uno zero posto alla metà tra l’uno e l’altro infinito.


Vita pioniera sulla colata lavica.

Questa storia partecipa al Blogger Contest 2021

Lo zaino da trekking di un solo giorno: suggerimenti per la scelta.

Lo zaino da trekking è elemento importante quanto gli scarponi, va quindi scelto con attenzione tenendo conto di una serie di caratteristiche significative. Intanto le dimensioni. Se avete intenzione di camminare per un’intera giornata è importante portare con voi tutto il necessario per svolgere al meglio un’escursione di questo tipo.

Sono molti gli zaini per il trekking che vengono proposti ma per un trekking di un solo giorno l’ideale è uno zaino di circa 30 litri. Magari per un’uscita di qualche ora potrebbe sembrare eccessivo ma è comunque una dimensione che rende lo zaino da 30 lt estremamente versatile in prospettiva di tempistiche maggiori.

Se siete orientati verso un acquisto ancora più versatile, allora è consigliato uno zaino da 40 litri: considerando anche che la vostra passione per il trekking e l’attività in outdoor potrebbe crescere fino a farvi venire il desiderio di escursioni più lunghe, magari di due giorni. In questo caso lo zaino da trekking di 40 lt è ottimo per portare con voi tutto l’occorrente.

Come scegliere lo zaino da trekking

Individuata la capienza dello zaino ci sono altre caratteristiche che il nostro zaino deve assolutamente avere. Innanzitutto i materiali che devono essere resistenti e allo stesso tempo leggeri. Di seguito al post trovate alcuni modelli delle migliori marche che garantiscono queste caratteristiche.

Un buono zaino da trekking deve essere dotato di imbottiture sullo schienale, sugli spallacci e sul fascione ventrale. Questi ultimi, dettaglio importantissimo, devono essere dotati di cinghie di regolazione che permettono l’adattamento alle proprie caratteristiche fisiche e il giusto bilanciamento del peso dello zaino una volta indossato.

Sarà proprio la regolazione congiunta di spallacci e fascione ad alleggerire le spalle del peso dello zaino che dovrà essere in prevalenza scaricato sulle anche. Un suggerimento: se durante l’escursione le mani cominciano a formicolare vuol dire che il peso sta gravando troppo sulle spalle, va quindi meglio regolato per spostarlo sulla zona del bacino.

Tasche laterali, meglio poche ma buone: sono utili ma non devono essere troppo grandi perchè una volta riempite possono sbilanciare lo zaino. Meglio quindi uno zaino tubulare con poche tasche ben posizionate e che permetta tramite apposite cerniere di raggiungere la parte più profonda senza dover svuotare completamente il carico.

Ultimo dettaglio il telo parapioggia a scomparsa che di solito è alloggiato in una tasca nella parte più profonda dello zaino. Questo sarà utile in caso di pioggia per coprire in modo rapido tutto lo zaino rendendolo impermeabile.

Di seguito alcune proposte tra i migliori zaini da trekking del 2021

Ferrino Finisterre 28

Salewa Alp Trainer 35+3, Zaino Tecnico da Hiking Unisex Adulto

Deuter Ac Lite 26 Zaino Da Trekking Unisex

Deuter – Futura Pro 36, zaino Unisex – Adulto

MILLET Ubic 30 Zaino Unisex – Adulto

Osprey Syncro 20, Multi-Sport Pack Uomo

C’è una balena bianca in fondo al sentiero.

Ogni tanto mi gira in testa quel pezzetto di dialogo dal mitico “Truman Show”. Ve lo ricordate? Il piccolo Truman che dal banco di scuola esclama tutto infervorato “Voglio fare l’esploratore, come il grande Magellano!” e la prof di geografia che risponde come da copione con un tono finto rammaricato “Oh, è troppo tardi, non c’è più niente da esplorare”.

Per fortuna che gli imprinting non sempre attecchiscono. Tanto si sa, che poi un modo per viaggiare ed esplorare lo si trova sempre, non necessariamente infilandosi in zone virginali in tutto e per tutto, topografia compresa. Qualcuno dirà pure che il viaggio di esplorazione è come il rock, tanto fico e tanto bello ma ehm peccato che è morto. Però, però. Prendi il buon Walter Bonatti. Tipo quella volta in cui, forse ricordandosi che da giovane era un gran divoratore di libri di avventura, se ne partì alla volta della Polinesia sulle orme di uno dei suoi autori preferiti, Herman Melville che lì aveva ambientato il suo primo romanzo, Taipi. A suo tempo il futuro autore di Moby Dick aveva detto chiaro che il libro era uscito da una sua esperienza realmente vissuta, ma i critici che di mestiere fanno i critici bollarono tutto come opera “fantasiosa”. Bonatti invece vuole credere a Melville, riconosce sulla pagina “analoghe tensioni fisiche e psicologiche” a quelle che lui conosce molto bene: gli stress fisici e gli stati emotivi del protagonista sono narrati proprio come li ha vissuti lui appeso su qualche parete alpina.

E da lì scocca la scintilla, il germe dell’esplorazione: i due a distanza di secoli, si guardano attraverso lo spazio della pagina ed entrano in risonanza. Non è certo lui il primo a provarci: altri sono partiti con la stessa idea di confrontare pagina e luoghi, ma ogni volta se ne sono tornati a mani vuote dicendo che Melville aveva lavorato un bel po’ di fantasia. Ecco il varco, la soglia che dà sull’ignoto e l’inesplorato. La mappa è il racconto, il tesoro è la conferma che va cercando. Bonatti ripercorre allora tutto il cammino durato giorni, tra creste montuose, cascate e valli infestate — al tempo di Melville — da tribù che praticavano il cannibalismo.

E così un frammento alla volta riconosce finalmente nel paesaggio polinesiano i luoghi rappresentati nel libro.

Sulla base di un’indizio, dal seme di una sensazione inizia il percorso di scoperta. Domanda da cento milioni: e da comuni mortali, quando si sta per sentieri e cammini va allo stesso modo? Tu vai a fare un cammino vecchio di secoli, sei in Italia cacchio, cammini su sentieri percorsi da genti di epoche varie, in alcuni punti trovi addirittura basolati di pietra romana, li puoi riconoscere dalla grandi pietre lisce, levigate da una miriade di passi. Hai mappe, tracce gps e segnavia. Cos’altro c’è da scoprire e da esplorare? si chiederebbe ironica la prof di geografia di Truman.

Eppure senti una connessione che lega te ai viandanti che ti hanno preceduto. Scopri in loro un lampo, qualcosa che somiglia a una tensione o un peso insostenibile, una scintilla analoga alla tua che li ha spinti a partire. Tutte quelle chiacchiere su viaggi iniziatici, mete sante e pellegrinaggi. Saranno vere o se le sono inventate? Sarà fiction, un colpo di stile, moda, superstizione? oppure lì in quella nota sfumata, in quella vibrazione c’è qualcosa che risuona con quello che ti porti dentro? Si cammina anche così. Senza stare troppo a pensare che quel cerchio d’onda con il quale stai cercando di entrare in sintonia è partito secoli prima. La scintilla scocca perchè ci sei te dall’altra parte a fare da polo.

Alla base un grande bisogno di conoscersi e riconoscersi. Come per Bonatti con il romanzo di Melville, c’è un paesaggio da verificare, un cammino da scovare e ricalcare. Si lasciano le vie note e ridondanti della quotidianità. Si lasciano le stanze e gli schermi dai quali rimbalzano gli echi infiniti di una nostra immagine falsata, per cercarne una autentica e veritiera. Lungo il sentiero la mano tocca i lineamenti del viso. La mente indaga e misura fatiche ed emozioni. Ripercorre in un intenso andirivieni i passaggi che legano stati d’animo anche molto distanti tra loro: come paura, frustrazione, demoralizzazione oppure gioia, meraviglia ed esaltazione. Scopri che combaciano con quelle di uomini e donne che ti hanno preceduto. Scopri che avevano ragione a orientarsi verso una meta lontana, a inseguire la balena bianca o cercare dialogo con il Cielo.

Il viaggio di esplorazione è morto, pace all’anima sua. Anche il rock è morto, ma su con la vita dai, ne riparliamo quando magari andremo a trekkare su Marte e intanto ops i Tool hanno sfornato un disco dopo 13 anni ma allora…siamo pieni di risorse, riusciamo ogni volta ad aggiungere orizzonti e dimensioni nuove. Quando Bonatti scopre che Melville ha ragione arriva dove altri non sono arrivati, pur ricalcando le medesime rotte e tracce esplora e scopre una verità intatta; così chi cammina scopre dettagli, cose di sé e del mondo che altri non hanno mai visto o non hanno mai riconosciuto. L’esplorazione si allarga e apre lo scenario di dimensioni nuove, riconnettendo il dialogo di tradizione con i viandanti che ci hanno preceduto. Un dialogo antico di cultura e identità, potente, capace di riverberarsi nei secoli. Da rinsaldare certo, e da curare.

(Photo courtesy of Richmond Art Center)

I sentieri nel cratere.

C’è questa piccola strada che devia dalla provinciale, alle spalle la zona rossa di Arquata del Tronto. Quasi a un trivio di confine tra le regioni di Marche, Lazio e Abruzzo: nel cuore del cratere, o meglio uno dei cuori, tanto è ampia l’area interessata dal sisma del ’16. Questa piccola strada finisce in un pugno di case, la frazione di Camartina: la chiesa dalle mura bianche, l’albergo inagibile, un limpido torrente, fiori esapetali incisi sulla pietra illuminata dal sole.

Lascio l’auto, metto gli scarponi e prendo il sentiero.

Quando ho chiesto a Vittorio quale sentiero aveva da consigliarmi lui ha allargato le braccia: hai l’imbarazzo della scelta, mi ha detto, ma adesso è Maggio, fai l’anello di Forca di Presta che ci sono gli asfodeli. Vittorio Camacci, classe ’64, insieme ai ragazzi dell’Associazione Arquata Potest sta portando avanti un progetto di recupero di un’antica rete di sentieri. Ho avuto con lui una bella chiacchierata un paio di settimane fa. Sono andato a trovarlo a casa sua nella frazione di Spelonga: ho camminato per una decina di metri nel villaggio Sae, le casette provvisorie per gli sfollati del terremoto. Le strutture modulari delle “Soluzioni Abitative d’Emergenza” erano come una nota prolungata e ridondante, interrotta soltanto dalla figura di Vittorio: il fisico atletico e gli occhi luminosi e sottili, mi aspettava con i gomiti appoggiati sulla staccionata davanti il suo alloggio.

Vittorio Camacci posa con i “ferri del mestiere”. By Arquata Potest.

Il sentiero serpeggia subito dentro un grande castagneto, sale deciso, tante le deviazioni che si innestano per andare a innervarsi dentro il bosco. Per orientarmi ho scaricato la traccia dal sito dell’associazione, ma il gpx è soltanto l’ultimo dei passi, quasi un dettaglio di tutto il lavoro che c’è dietro. Vittorio è stato una specie di medium, un tramite per aprire gli occhi sui sentieri dimenticati e scomparsi di questa zona di giuntura tra i Monti Sibillini e i Monti della Laga.

Quando mi sono seduto al tavolo con lui, sua madre aveva già pronto un piatto con i biscotti da inzuppare nel vino cotto, sopra il mobile della cucina tanti trofei vinti nelle gare di trail.

“È una vecchia passione che avevo già prima che succedesse tutto questo, prima del terremoto. Parte di questi sentieri li percorrevo durante le corse in montagna, man mano che andavo avanti con l’allenamento avevo bisogno di variare e allungare un po’ i giri così andavo a cercare anche quei sentieri di cui mi parlava mio nonno e altri vecchi del paese. Alcune tracce le ricordo fin da quando ero bambino. Avevamo un sentiero che da Spelonga andava fino ad Arquata. Lo percorrevo con mio padre, c’era una passerella sul fiume Tronto, un ponticello fatto con le traversine di legno e veniva percorso fino agli inizi degli anni 70. Poi sono stati abbandonati, ma io ho sempre ricordato che c’era, quell’immagine l’ho sempre tenuta in mente”.

Mentre salgo posso vedere parte delle macerie di Arquata. In attesa di una ricostruzione che tarda a partire, oltre che abbandonata, questa gente si è sentita disorientata, spersa, spaesata. Senza un paese appunto. La loro vita trasferita nei moduli, ennesimo non luogo sigillato nel silenzio di un tempo sospeso. E così ha scavato nella propria memoria. Sentieri e percorsi sono emersi come linee di impronte digitali, fondativo elemento di identità posto ad argine della marea anonima e ridondante.

“Prima degli anni 50 strade non ce ne erano. Avevi i sentieri. Se dovevi vendere un animale ad una fiera lo portavi percorrendo un sentiero, così se andavi a trovare un parente alla festa del paese. Quando sono arrivate le strade e le automobili gli ultimi usi di questi sentieri sono rimasti quelli legati all’allevamento, alla transumanza e all’agricoltura di sussistenza. Poi quando hanno aperto le fabbriche giù nella valle se ne sono andati quasi tutti e addio sentieri. Era scomparso tutto, in molti casi l’unica cosa rimasta era soltanto il ricordo, la memoria dei vecchi del paese. Un pezzo alla volta me li sono messi tutti in testa e adesso li ricordo a memoria”.

Vittorio che riesce a tenere a mente tutta la rete dei sentieri un po’ mi fa invidia. E mi ha fatto pensare a Fahrenheit 451, il romanzo dove i libri venivano bruciati perché considerati pericolosi strumenti di libero pensiero. Chi voleva resistere e opporsi alla loro distruzione, li imparava a memoria, anche in parti e piccoli pezzi. Così anche tenere a mente una rete di sentieri in una zona rasa al suolo, che rischia di essere cancellata e dimenticata, mi fa pensare a un gesto simile.

Preparazione della segnaletica dei nuovi sentieri. By Arquata Potest.

Continuo a camminare, il solco muta forma. Tratti di single track si alternano a larghe sterrate: i soci dell’associazione e i volontari si prendono cura costantemente di questi percorsi. La pratica della manutenzione del sentiero ha radici antiche da queste parti. Tra le varie comunanze agrarie era consuetudine mettere a disposizione per tre giorni al mese un familiare. Era un’attività su base volontaria, ma obbligata per l’importanza che avevano.“Dal passato ci siamo portati dietro quest’idea che siano un patrimonio di cui prendersi cura. Con il terremoto quest’idea invece di morire ha preso forza. Di lavoro da fare ne abbiamo ancora molto. Ci piacerebbe col tempo dedicarci anche al recupero delle casette con i tetti a schiazze che venivano usate come rifugi e ricoveri per i pastori. Le schiazze sono le tegole ricavate dall’arenaria che si frange naturalmente per lastre: qui c’erano anche delle cave, le schiazze venivano rifinite a mano con cunei e scalpelli”.

Il bosco risuona con le chiome mosse dal vento, le ghiandaie fanno il loro solito chiasso per avvertire che c’è un intruso in zona. Ogni tanto il rintocco legnoso del picchio. “Cerca le perturbazioni dell’ordine atteso, stai attento alle interazioni impreviste”: le parole de “Le Antiche Vie” di Robert Macfarlane mi sono tornate in mente quando Vittorio mi ha raccontato del suo modo di procedere nella ricerca dei sentieri scomparsi. “Gli occhi devi tenerli bene aperti. Sul sentiero sono passate persone per centinaia di anni, rimane comunque un minimo di traccia, di segno. Sono come dei fossi rimasti in secca, qualcosa rimane e devi essere bravo a guardare, insomma devi farci l’occhio. Ci sono delle cose che ti danno suggerimenti come il piano del terreno infossato o delle pietre piatte che spuntano dal fianco di una scarpata: quelle possono essere i resti di un muretto a secco e allora lì vicino se c’è il muretto ci dev’essere pure il sentiero. A quel punto vai a cercare le diramazioni che nascono dal sentiero principale. In generale oltre al ricordo personale e al racconto di chi se li ricorda sono queste le tracce che seguo”.

Guardo il sentiero sul quale sto camminando. Questa linea di terra nuda e sassi è il risultato di un processo che si è attivato altrove, nella mente. È la proiezione del pensiero e del ricordo di Vittorio e degli anziani che ha consultato. Ed è anche la traccia segnata da chi secoli prima lo ha preceduto. Ecco perchè Vittorio è una sorta di medium.

Sembra ci sia qualcosa, una spinta che porta a pensarli, a cercarli e riscoprirli.

Qualcosa che muove il loro continuo apparire e scomparire, questo loro continuo rigenerarsi tra le maglie del tempo. Poi ti fermi ad ascoltare il rumore del vento tra gli alberi, ripensi alle metafore che usa Vittorio: “poi il sentiero può anche finire lì e allora devi tornare indietro, ma intanto hai trovato una parte nuova di tutta la rete. I sentieri sono come le vene del corpo umano, no? Dalle arterie principali hai le secondarie e così via. Piano piano ricostruisci tutto il sistema”.Sentieri come vene e arterie. La natura ripete i suoi modelli efficienti: il cammino è un flusso sanguigno che porta con sé un’informazione preziosa come l’ossigeno. La memoria è popolata di questi echi, si rimane ad ascoltarla per iniziare a vergare tracce e simboli, passo dopo passo come fosse una pratica di scrittura automatica. Non sei te a percorrere il cammino, ma è il cammino che ti passa attraverso. Lascia traccia di sé, deposita memoria, semina possibilità. Di tutte, la più profonda è la possibilità di restare intatto nel paesaggio interiore. Al riparo. Mentre rovi, vitalbe e muschi arriveranno a cancellare ogni cosa.

Fuori dal bosco il sentiero diventa una traccia appena leggibile che sale ripida con corti zig zag. Un bel sole alto riscalda l’aria. In lontananza verso il fondovalle la sottile linea azzurra dell’Adriatico. Già si indovina la linea regolare della provinciale che porta al valico. Così eccomi a Forca di Presta mitico valico ai piedi del Monte Vettore, la cima più alta dei Monti Sibillini. Quando arrivo trovo i camioncini dello street food, varie macchine parcheggiate. Piccole sagome che salgono con la testa china verso la vetta, altri che danno i primi colpi di pedale per intercettare il Grande Anello dei Sibillini verso Sud. Poco oltre la strada asfaltata comincia a scendere ed è subito Umbria che accoglie con lo spettacolo dell’altopiano di Castelluccio di Norcia.

Andando indietro nei secoli il valico è sempre stato molto frequentato: da qui si scendeva molto rapidamente fino a intercettare la Via Salaria, la storica via del sale che collegava l’Adriatico a Roma. Hanno calcato questi sentieri molti viandanti e pellegrini, eserciti, i monaci benedettini che dalla vicina Norcia raggiungevano abbazie e monasteri disseminati per le Marche e gli Abruzzi. Arrivare al valico e puntare verso la Salaria era come orientarsi verso il centro del mondo.

“Non c’è solo la Salaria” ha proseguito Vittorio, “prima c’era la Via Metella che prende il nome dal console romano Metello che la fece costruire. Ed è molto più antica della Salaria, può essere considerata una sua versione primordiale. La Via Metella dall’Adriatico entrava nelle Gole del Salinello, saliva fino a Pizzo di Sevo sui Monti della Laga e da lì seguendo il Tracciolino di Annibale scendeva fino ad Amatrice. Sì certo, si chiama così perché è uno dei probabili passaggi che ha usato Annibale per svalicare gli Appennini dopo la battaglia del Trasimeno”.

Asfodeli in fiore e il Monte Vettore sullo sfondo. By Alessandro Galloppa

Seguo la traccia, mi lascio alle spalle il bel rifugio degli Alpini putroppo ancora inagibile e devio verso un grande prato in discesa. Di nuovo i passi vanno sulla linea antica, di fronte si apre la stretta valle del Tronto. La SS4, la moderna Salaria, vista dall’alto con le sue curve sembra un biacco che si gode il sole. Sul versante opposto i boschi scuri e densi che salgono sui fianchi della Laga, il pugno di case di Spelonga e vicino l’area Sae. Quando ho salutato Vittorio era sera fatta. L’oscurità era scesa sui monti intorno, scomparsi i loro profili. La mole del Vettore con la faglia digrignante dietro lo schermo nero. Alle mie spalle la Laga scrosciava le sue cascate innumerevoli nel ventre della notte. L’odore del fumo che usciva da un camino aveva incrinato il senso di spaesamento.

Ora per un breve tratto cammino all’ombra di una faggeta, i tronchi secolari come sculture, i rumori del valico sono scomparsi e con loro ogni riferimento al tempo presente. Il rumore dei passi si sovrappongono agli echi dei passi dei viandanti di secoli fa: truppe e soldataglie, gente in vena di commerci, monaci, pellegrini. All’improvviso fuori dalla faggeta li vedo: gli asfodeli che mi aveva detto Vittorio. A decine occupano lo spazio di un grande pianoro erboso: alti e fioriti di un bianco candido ondeggiano con ritmo ipnotico mossi da un vento leggero. Slaccio lo zaino e mi metto a guardarli, a lungo. Sembra che il tempo stia ancora sospeso in quell’attimo in cui la bellezza entra e fa il miracolo: il soldato non pensa alla guerra, il mercante dimentica il denaro, il pellegrino assaggia la Grazia.

Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020

Quattro giorni sul Cammino dei Briganti.

[Questa non è una guida, ma una raccolta di appunti e impressioni sui giorni che ho trascorso sui sentieri del Cammino dei Briganti. Percorso ad anello di circa 100 km, si snoda tra Lazio ed Abruzzo, tra le aree della Marsica e del Cicolano. Queste zone sono state teatro di vicende di ribellione popolare dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Da qui il nome del cammino. Sul sito ufficiale trovate tutte le informazioni utili per preparare ed intraprendere il viaggio.]

Tappa 1 (21 km da Sante Marie a Nesce). Inizio a camminare mattino presto, dopo aver fatto colazione nel bar della piazza principale di Sante Marie. Tutto il paese in silenzio se non fosse per un cane che mi abbaia contro da un terrazzo. Corso Garibaldi è una bella via con vecchi portoni, poi uscire è un attimo con una piccola traccia che ti cala fuori nella campagna umida e luminosa tra campi incolti e orti recintati. Piacevole tepore addosso che riscalda, fino a quando non vieni ingoiato di nuovo dal bosco. Roverelle e castagni, luce che filtra dai rami, ciclamini selvatici di vivo viola, le teste delle amanite hanno appena smosso la terra umida e scura. Con salite tranquille e qualche breve strappo si fanno i primi 8 km fino al borgo di Santo Stefano. Un palazzo nobiliare reca nello stemma una stella e l’uroboro, il serpente che si morde la coda. La via principale conduce tra archi non ancora illuminati dalla luce del giorno, strette vie escono dalla linea principale per andare a raggomitolarsi nell’ombra quieta. La strada è oltre una chiesa illuminata dal sole dedicata alla Madonna della Neve, appena diventa sterrata costeggia un grande castagneto dove una vecchia signora è china a raccogliere qualche castagna. Ha spalle larghe e tonde, un fazzoletto verde le copre la testa e incornicia il volto con un nodo sotto il mento. La gonna viola che le scende con ampie coste fino alla caviglia la fa sembrare ancora più massiccia di quel che è. Risponde al mio saluto con un cenno della testa e un breve sorriso.

Ancora campagna, la sterrata è appesantita dal temporale dei giorni scorsi, gli aceri che stanno ingiallendo si riflettono nelle grandi pozzanghere. Cammino a lungo in piano sul fondovalle della Val di Varri. Piccole mele a terra, sono dello stesso verde acido del fazzoletto della signora nel castagneto. Ancora un’oretta poi è di nuovo bosco: salgo camminando su ampi banconi d’arenaria che già si sono asciugati al sole.

A tratti un andamento tortuoso, viscerale. Case illuminate dal sole in lontanaza appaiono e si eclissano dietro i colli di verde intenso, poi i colli scompaiono dietro altri colli e così via. Anche con i segnavia e il gps acceso non c’è più l’impressione di andare da un punto all’altro, di tenere una direzione. Sembra quasi che il cammino ora dopo ora come una serpe ti sta avvolgendo in spire. Che poi qui nel cuore d’Appennino quello del serpente è simbolo assai antico, bazzicava da queste parti ancora prima della storia di Eva e della mela. Il paese di Cocullo non è lontano: un’ora di macchina, nemmeno due giorni di cammino. E come ogni anno, il primo di Maggio si riempirà di gente che vorrà vedere la statua di San Domenico portata in processione completamente ricoperta di serpenti vivi. Retaggio di vecchi culti pagani, a quando la serpe era legata alle forze naturali e telluriche, alle profondità e ai recessi sede delle energie primordiali che rinnovano e guariscono.

Quando l’altimetro segna circa quota 1200 si comincia a scendere.All’ombra leggera delle chiome uno stretto sentiero fa cedere velocemente quota, il bosco è un grembo silente e trafitto dal sole. Lo attraverso in perfetta solitudine fin quando arrivo a Poggiovalle, un pugno di belle case in pietra che ha dato i natali al brigante Michele Pietropaoli ucciso dai granatieri dopo uno scontro a fuoco. La via principale è molto ripida, qui d’inverno il freno a mano dell’auto tocca tirarlo per bene. Mi fermo per bere, in lontananza la vetta imbiancata del Velino quasi galleggia nel verde dei boschi. Esce un vecchio da una porta color ruggine rugosa e massiccia. Senza che gli chieda niente mi dice per il cammino da quella parte meno di un’ora e sei a Nesce.

Arrivo nel paese che ho una certa fame. Chiedo a un tizio seduto su una panchina dove posso comprare qualcosa, mi dice che lì non c’è niente. Gli alimentari stanno più avanti a Pescorocchiano, a tre chilometri da Nesce. Chiamo per dire a quelli della camera che sono a Nesce che sono arrivato, che andrò nel paese vicino a comprare qualcosa da mangiare e che ci vedremo quando torno. Ma dopo venti metri me li trovo lungo la strada, Flavio e sua moglie Lucia a tendermi agguato accogliente come vecchi briganti. Se vuoi qualcosa da mangiare te lo prepariamo noi mi dicono. Giro i tacchi e mi faccio accompagnare da Flavio nella casa che gestisce come struttura ricettiva del cammino. Prima di entrare, tolgo gli scarponi infangati. Fa come se fossi a casa tua mi dice mentre traffica davanti al caminetto. Tempo due minuti e il fuoco è già bello vivo. Altri due minuti e Lucia porta un cestino con dentro pane, prosciutto, salsicce di casa e due bottiglie di birra.

Scaldarsi davanti al fuoco acceso dopo ore di cammino è una cosa che ti rimette al mondo. Con Flavio ci diamo appuntamento a casa sua per la cena. La serviamo alle sette e mezza dice. Sono le quattro ho tutto il tempo di bere e mangiare, fare una doccia, godermi il fuoco ancora per un po’. Senza fretta: una lentezza a cui, me ne rendo conto soltanto adesso, non ero più abituato.

Davanti al fuoco più bello e caldo dell’universo. Gambe e spalle che si sciolgono, il cervello ha questa frequenza inutilmente alta. Così è la testa che per ultima segue gambe e spalle e va a sciogliersi tra le fiamme crepitanti. È come se fossi entrato a tutta velocità in questo pugno di case e la massa densa e viscosa del suo tempo abbia ammortizzato il mio moto. Ed ora sono qua, come catturato da un tempo brigante in un luogo minimale ed essenziale. Quando le fiamme sono basse, do un’assestata alle braci perchè non caschino fuori dal caminetto, poi esco a fare due passi tra le vie di Nesce.

Le vie sono deserte, a ridosso del crepuscolo il tempo sembra sospeso. Non si capisce bene sospeso dove, se un minuto prima dell’abbandono totale o della resurrezione. Camminando tra le vie cerco di immaginare come potessero essere cinquant’anni fa, quando nel paese c’era vita. Denso vociare di gente indaffarata, animali liberi di scorazzare dalle stalle a piano terra per le viuzze del paese. Ora un cumulo di pietre sta in un angolo della piazza. Ancora imballate nella plastica, pronte per rifare nuovo il selciato. Il cammino ha portato linfa e ossigeno. Nella piazza attigua c’è un altra struttura ricettiva, l’entrata dà direttamente sulla piazza dove il silenzio è rotto dal borbottare di un grande fontanile. Il paese sta cambiando pelle. Come un rettile è nella fase di muta. La vecchia pelle sta ancora attaccata al corpo che pulsa e che respira. Si leggono ancora bene le tracce del tempo passato, si vedono già in divenire gli orizzonti nuovi di un paese che tornerà a nuova vita grazie ai camminatori che già arrivano in buon numero. C’è da chiedersi se rimarrà in qualche modo intatta l’atmosfera che si respira qui oggi. Lo spirito quasi sacrale del luogo, il carattere sanguigno e benevolo della gente.

Tappa 2 (26 km da Nesce a S.Maria in Valle Porclaneta). Non sono ancora le sette del mattino. Faccio colazione a casa di Flavio e Lucia. Lucia mi porta a tavola dolci e crostate e una tazza di caffè fumante appena spillato dalla moka. Flavio è fuori nel piazzale, sta mettendo ad asciugare sopra un telo un gran mucchio di noci raccolte il giorno prima. Prima di salutarmi mi indica uno stradellino che scende rapido dal paese. Erba alta, cocci di mattonelle e piatti da cucina. Sembra davvero un varco segreto per far fuggire i briganti. Pochi metri e si riallaccia alla strada del Cammino. La grande valle è invasa dalla nebbia. Il Velino è sempre lì con il cappuccio bianco. Il sentiero si stringe e serpeggia dentro un bosco radioso di roverelle. Le russole con i cappelli accesi hanno apprezzato particolarmente la terra umida. In un niente mi ritrovo nella bassa lattiginosa, la nebbia non è così densa da non farmi leggere il sentiero, ma l’effetto onirico è pieno e palpabile. Cammino mentre il suono del torrente si mescola con quello delle campane di un paese vicino. Qualche chilometro e salgo a Villerose. Giro un po’ tra i suoi vicoli silenziosi e sgarrupati, le case più vecchie sono in stato di abbandono ma conservano fascino, sarebbero davvero belle una volta ristrutturate. Lascio alle spalle la parte residenziale moderna, asfalto, poi si sale per sentiero a prendere quota e puntare a Spedino. Prima del paese scambio due chiacchiere con un pastore che tiene il suo gregge di pecore a pascolare in un piccolo pianoro assolato. Mi dice di stare tranquillo perché nei prossimi giorni sarà sempre tempo buono. Breve sosta per prendere in un bar due panini poi di nuovo in cammino. Qualche chilometro in piano, le gambe si rilassano su un sentiero che sale lento ma poi c’è lo strappo finale per arrivare a Cartore. L’ultima salita va dal bel fontanile per una via irta e lastricata fino ai caseggiati in pietra. All’improvviso si aprono i grandi prati verdi ai piedi del Velino e l’unica cosa che viene da fare è slacciare lo zaino, sedermi sull’erba e cavare fuori i panini del pranzo. Anche se è Ottobre inoltrato l’erba è di un verde vivo. Di nuovo il tempo inizia a rallentare e sospendersi. La tentazione di rimanere qui e farmi un sonno è grande. Ma c’è altra strada da fare, altri chilometri per arrivare a chiudere la tappa. Riprendo il sentiero, a un bivio a sinistra si sale verso il Velino fino al Lago della Duchessa. Sono questi i sentieri e le terre che erano battute dalla temibile banda dei Briganti di Cartore. È una tappa facoltativa del cammino, ma la inserirò quando tornerò con il gruppo. Con le piogge scarse di quest’anno il lago ha poca portata, in più alcuni sentieri sono interdetti per favorire la nidificazione del grifone.

Approfitto delle due tacche sul cellulare per chiamare il custode della chiesa e avvertirlo che arriverò tra un paio d’ore. Lui dice ok, appena arrivi chiama che ci metto cinque minuti ad arrivare. Non è Santiago, ma qui i meccanismi dell’accoglienza sono ben oliati, c’è disponibilità e passione da parte della gente di qui nel dare una mano al camminatore. Il sentiero continua a salire fino a un ampio valico. È il punto più ravvicinato al Velino: anche oggi il paesaggio è variato velocemente, senza mai essere ridondante, pensare che sono partito da una brumosa pianura e in mezza giornata mi ritrovo tra pascoli montani. Scendo dal valico e in un’ora abbondante intercetto la strada asfaltata. È costeggiata da un bel muretto a secco, duecento metri e appare la bella abside della chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta. Slaccio lo zaino nel piazzale assolato, la facciata è semplice, la linea del tetto è in armonia con il profilo del Velino che svetta proprio alle sue spalle. Faccio uno squillo al custode. In nemmeno dieci minuti è già qui. Ci presentiamo, si chiama Marco e mi chiede se voglio visitare la chiesa. Certamente, forse tutta la sfacchinata del cammino ha un senso soltanto per vederne l’interno. Marco apre e mi accompagna. Mi da tutto il tempo di restare a guardare l’ambone, il ciborio e l’iconostasi: sono tre gioielli spettacolari. Mi attardo a guardare un capitello dalle forme estermamente grezze. Si leggono i profili di due animali, nel centro una figura umana come la farebbe un bimbo delle elementari e un ovale contornato da un profilo ondulato. È una natività, mi dice Marco. Non ci sono Giuseppe e Maria, ma quelli sono il bue e l’asinello e quella cosa ovale in mezzo è la stella cometa. Mentre continuo a guardarmi e riguardarmi la chiesa Marco mi dice che lui è il custode da poco. Prima c’era Costanza, un’anziana signora che come lui, ogni volta che c’era bisogno, veniva ad aprire la chiesa ai viandanti. Un giorno il parroco la chiamò per dirle che sarebbe arrivata una macchina con della gente che voleva fare una visita. Quando la macchina arrivò, lei era già pronta nel piazzale e quasi le prese un colpo quando vide scendere da quell’auto addirittura Papa Benedetto XVI. Nella chiesa sono ancora esposte le foto di quella visita. E lei, Costanza, sta lì con le mani giunte e con il sorriso tenero e bello di una giornata indimenticabile.

È sera fatta quando un picchio traccia l’ultima traiettoria verso gli alberi. Prima di salutarmi Marco ha aperto la foresteria accanto la chiesa dove passerò la notte. Resto seduto fuori, sui gradoni di pietra levigata che scendono giù al fontanone. Con la schiena appoggiata al muro della chiesa aspetto che la vista si abitui all’oscurità che monta da occidente. Marco mi ha anche detto che il terremoto del 1915 ha tirato giù tutto il chiostro che stava qui, dove ora c’è il grande piazzale antistante la chiesa. La pietra ancora calda, il rudere di quella che era la porta di accesso al chiostro sembra un varco tra epoche. Il perimetro della piazza traccia ancora il quadrato del loggiato che ora si apre sullo schermo punteggiato di stelle. Non tira vento, tutto sembra fermo e immobile.

Eppure a pensarci bene la chiesa e la piazza, il fontanone e le scale con me seduto sopra, tutto sta comunque viaggiando insieme alla stella chiamata Sole e tutto il galattico chiasso.

Una miriade di orbite cicliche che se ne vanno tracciando traiettorie a spirale.

La direzione di fuga sancita da due semplici parole “fiat lux” e ogni punto divenne un cerchio e ogni cerchio una spirale. Così un chiostro o l’anello di un cammino altro non sono che la metafora di uno sviluppo, di un’evoluzione. Sono un invito a insistere e a ripetere: si cammina in tondo, eppure ad ogni giro non si torna mai al punto di partenza ma si va oltre, più avanti.

Domani il sole illuminerà uno dei chiostri più grandi e più belli mai costruiti: le roverelle a fare da colonne, gli archi ornati da fregi di brina e ragnatele scintillanti al mattino, un mosaico interminabile di foglie accese di luce e mosse dal vento. Un chiostro segreto e distante, separato dalle pianure delle città fumose, dove meditare in solitudine sul senso dei passi che si ripetono e si sommano assidui e polverosi.

Tappa 3 (16 km da S.Maria in Valle a Scurcola Marsicana). Mattino, sono le otto passate, ho voluto dormire un po’ di più. Mi chiudo dietro il pesante portone della foresteria della chiesa e ricomincio a camminare. Una roverella gigantesca, una cartello dice che ha la stessa età della pieve, più di ottocento anni. Ieri ho postato le foto della chiesa, trovo un commento che dice un pò dello spopolamento di queste zone “muchas gracias! Mis nono era de esa zona, yo estoy en Argentina. Preciosas imagenes, muchas gracias!”.

Aria fresca, sentiero stretto e bagnato di guazza finchè non arriva l’asfalto e le prime case di Rosciolo dei Marsi. Strade silenziose, un’anziana sulla soglia di casa mi saluta con un sonoro buon giorno e buon cammino. Nella piazzetta vedo un bar con un cartello vendesi. È aperto, entro per fare colazione, caffè e cioccolata confezionata perché di paste e pasticcini nemmeno l’ombra. Anche Rosciolo ha i suoi numeri: una piazza con la bella chiesa di Santa Maria delle Grazie, vicoli dagli scorci caratteristici, vecchie case alcune da rimettere in sesto altre ristrutturate di fresco. Porte e portali ognuno con il suo stemma sulla chiave di volta: il Cammino dei Briganti sarebbe da fare soltanto per fotografare e catalogare tutti gli stemmi che si incontrano di frequente anche sulle case più umili. Vedo il segnavia che compare su uno stretto vicolo, lo imbocco e percorro tutta la via in discesa che offre una carrellata sui caseggiati più esterni del paese. Le mura sono di un bell’arancio chiaro. La discesa punta decisa verso la valle che si apre in basso. È giorno fatto, c’è una luce calda e radiosa. Cammino per qualche chilometro in piano fino a una breve salita che entra a Magliano de’ Marsi. Questo è il centro più grande di tutto il cammino. Qualche foto alla bella facciata della chiesa di Santa Lucia con il grande rosone, poi giù per la strada asfaltata tra case moderne, negozi e attività.

Uscito dal paese, di nuovo si apre l’ampia pianura. Ho incontrato tante chiese in questi giorni tutte dedicate a Maria o a sante varie. Sono rappresentate madonne anche nelle edicole poste ai trivi come a scacciare le ombre delle streghe e dei loro convegni. A volte le madonne stanno con due sante accanto, formando una trinità femminina, retaggio forse di divinità venerate quando la piana del Fucino era ancora quel grande lago che sarebbe stato poi bonificato dai Romani. Mi tornano in mente i sentieri tortuosi dei giorni precedenti, quella sensazione di essere avvolto dal paesaggio intorno come in delle spire. Queste terre sono impregnate di energia materna. A ripensarci più che a spire è più calzante pensare a delle viscere.

Su questi sentieri si cammina in un ventre. Nel ventre materia ed energia sono ricreate, scomposte e trasformate. E nelle convoluzioni di terre e sentieri, è il camminatore ad essere materia da rielaborare seguendo tempi altri e nuovi. Il suo pensiero e il suo sentire sono materia da ruminare, scomporre e ricomporre, trasformata per trasfigurarla in energia.

I rumori dei passi dopo qualche ora hanno la cadenza di una nenia, il suono monocorde dei rosari recitati accanto al fuoco.In lontananza il Monte San Nicola, lo costeggio sempre in piano quasi a circumnavigarlo finchè non spuntano le prime case di Scurcola Marsicana tutta quanta abbarbicata sul fianco del colle. È quasi mezzogiorno. Ho camminato soltanto una quindicina di chilometri oggi. Di solito il terzo giorno di cammino è quello in cui le gambe e il fiato cominciano a perdere i colpi, quindi una tappa breve ce la vuole: domani, ultimo giorno di cammino, ne avrò per buoni 30 chilometri. Dalla piazzetta nella zona bassa che si apre sulla statale che porta ad Avezzano comincio ad arrancare lungo le strette vie in salita. Ho prenotato alla Locanda Incantata, un palazzo d’epoca che sta proprio in cima al paese vicino ai ruderi del grande castello, la Rocca Orsini e alla Chiesa della Vittoria. Mi accoglie Alessia che gestisce la struttura con suo marito. Sono in ampio anticipo sull’orario di arrivo, avevo prenotato soltanto la cena. È gentilissima quando le chiedo se può prepararmi anche il pranzo. Alle due del pomeriggio sono già alle prese con un bel piatto di tagliatelle all’uovo condite con olio e maggiorana: Alessia mi dice che è una ricetta di un’anziana signora che aveva un’osteria qui in paese.

È davvero bella Scurcola. Qui predicava Domizio Jacobucci, frate che nottetempo toglieva il saio per indossare la divisa borbonica e andare a rompere le scatole ai piemontesi. Qui nel 1861 si compì una feroce repressione per punire l’avanzata del brigante filoborbonico Giacomo Giorgi che dopo aver marciato vittoriosamente su Tagliacozzo, Sante Marie e Scurcola quasi andava a prendersi pure Avezzano. Ma soprattutto qui vicino sui piani Palentini nel 1268 ci fu la storica battaglia tra Corradino di Svevia contro le truppe di Carlo I d’Angiò.

Nel pomeriggio la giro con calma. Il centro storico ha resistito al terremoto del 1915 così l’impianto urbano ha conservato un dedalo molto caratteristico.Vie e viuzze, archi e loggette, mura dalle pietre lisce scandite dalla serie di porte e portali. Edicole con gli affreschi di santi e madonne. Vicoli ciechi che ti invitano ad entrare da scale in pietra e piccoli spiazzi. In molte parti il paese avrebbe bisogno di interventi e ristrutturazioni, ma conserva comunque un suo spirito, un’impronta intatta. Se si riuscisse a metterlo in forma avrebbe davvero poco da invidiare ad altri esempi virtuosi, come S. Stefano di Sessanio per intenderci. Proprio in fondo al paese ecco la Chiesa della Trinità con la bella scalinata barocca. Metto dentro giusto il naso perché degli operai stanno ripulendo il pavimento e mi dicono che non si può entrare. Da un altare laterale troneggia un grande affresco con San Michele Arcangelo. Nella piazzetta chiedo a una ragazza dove posso trovare un alimentari aperto. Mi indica una via lì a sinistra cinquanta metri sulla sinistra trovo una macelleria ben fornita. I gestori sono simpatici, hanno molta voglia di parlare. Anche loro ormai abituati ai camminatori che entrano a fare scorta. Mentre mi preparano due belle fette di pane con la salsiccia scura di fegato mi chiedono di dove sono e dove sono diretto. Domani per me è l’ultima tappa del cammino, gli dico, e chiudo l’anello.

Tappa 4 (30 km da Scurcola Marsicana a Sante Marie). Lascio Scurcola alle sette del mattino quando la nebbia tiene ancora in gola tutte le case del paese. Sarebbe di fare tutto il giro dei vicoli, di nuovo soltanto per il gusto di nuotare nella densa morgana che li sta tenendo sospesi. Ma oggi è lunga. Da fare una trentina di chilometri per chiudere l’anello. Primo tratto in campagna poi il sentiero comincia ad alzarsi lento di quota, lascio sulla sinistra il bivio per il casale le Crete, un bel bosco inondato di ragnatele, foglie rami e fili d’erba imperlati di gocce d’acqua. Poi di nuovo la campagna in piano.

Ampie sterrate dove rullare e salire tranquillo mentre i raggi del sole scaldano tutto quanto il corpo. Fumi che salgono lenti dalla terra, si asciuga l’umidità raccolta di primo mattino, dal fondo bianco della sterrata raccolgo a poca distanza due fossili. Uno è interrato e con calma devo scavare con il coltello tutta la terra intorno finchè non cavo fuori questo bel sasso che sta nel pugno della mano. Camminando lo ripulisco della terra finchè non compaiono le linee e tutta la cupola arcuata della conchiglia. Di nuovo un tratto di provinciale, un po’ d’asfalto per far riposare le giunture non guasta. Sul bordo strada si muovono le frasche ed esce un tizio: è bardato da runner e tiene in mano un bel grappolo di uva nera. Lui è di qui, facciamo un tratto insieme: mi chiede del cammino, di come l’ho trovato ed è contento quando gli dico che secondo me è molto bello ed è segnato bene. Ci salutiamo quando sulla destra compare l’innesto di un sentiero. Un breve tratto a risalire e arrivano le case di San Domenico. Dalla piazza si allarga il verde della valle punteggiata dai primi gialli e rossi. Dalla parte opposta la mole di un grande colle. La traccia punta proprio in quella direzione, quindi qualche generoso sorso d’acqua e si riparte. Subito dei piccoli tornanti tra le belle case della zona vecchia e semiabbandonata del borgo. I muri sono ornati dalle viti che sono cresciute indisturbate. La strada diviene in pietra poi muta in un sentiero stretto che serpeggia veloce in alto ed è un attimo ritrovarsi all’improvviso su un’ampia sommità da cui si apre una vista spettacolare sul Monte Velino. In lontanaza si legge il piccolo skyline violaceo di Scurcola Marsicana, poi la valle dolce e verdeggiante con i boschi che su questo versante hanno già virato decise alle tinte autunnali. Il sentiero che sale segnando la prateria ora diventa roccioso, le rocce prima irregolari ora diventano gli scalini che costeggiano le mura diroccate di una rocca.

Il Cammino dei Briganti è bello anche per questo: quando pensi che il paesaggio si sia assetato su un determinato mood eccolo che cambia improvviso ritmo e tonalità per accompagnarti a nuovo stupore. Anche ora che sto andando su un comodo pianoro erboso: il tempo di fare scorta a un fontanile, predere la sterrata che piega sulla destra e subito un sentierino si infila in discesa dentro un coloratissimo bosco. I gialli e i rossi degli aceri, il vinaccia dell’orniello: con questa luce è uno spettacolo. E ancora, uscito dal bosco è il momento di infilare la via principale di Scansano, anche questo un borgo caratteristico e ben tenuto. Si percorre quasi tutta la via, asse principale del caseggiato che si sviluppa sulla linea del crinale. Tre vecchi a parlottare seduti davanti la porta di casa. Poi il segnavia dice di deviare, grandi fienili in mattoni in mezzo a un prato verde dall’erba tagliata di fresco, la traccia scende per infilarsi ancora nel silenzio del bosco.

È ora di pranzo, per arrivare a Sante Marie ne avrò per un altro paio d’ore. Sulle prime penso di mangiare quando sarò arrivato, ma dopotutto oggi non ho ancora fatto una pausa degna di questo nome: le gambe hanno ringraziato per la tappa breve di ieri, oggi hanno frullato per bene, sono andate con passo costante. Così quando il sentiero torna in ombra slaccio lo zaino, mi siedo su un grande muro a secco dal quale si alza una parete diroccata con un vecchio portone rugoso ancora mezzo attaccato ai cardini arrugginiti. Cavo fuori il panino, quello con la salsiccia dei due macellai di Scurcola. Troppo buono per la miseria. La carne è leggermente stagionata, tra il rosso scuro della carne di fegato il rosso vivo dei pezzetti del peperoncino e il verde giallognolo dei semi di finocchio selvatico. Sono sinceramente pentito, ieri me ne dovevo far fare due di questi, ma poi chi diavolo continuava a camminare?

Quando riparto il sentiero esce dal bosco, intercetta la provinciale per poi infilarsi di nuovo tra castagni e roverelle. Dalla provinciale si arriverebbe in poco tempo a Sante Marie, ma si sa che i briganti per non farsi beccare devono necessariamente bazzicare vie traverse e alternative. A volte sono scorciatoie, ma spesso e volentieri aumentano le distanze. E poi questa è una caratteristica che ho notato anche nelle altre tappe: nel disegnare il cammino non è stata cercata la via più corta o a soluzione più breve. È come se avessero voluto aumentare la permanenza del camminatore, quasi volessero prenderlo in ostaggio per regalargli l’immersione in queste belle terre, un contatto prolungato ed intenso, quasi una fusione. Ed ecco che ci sono quasi ad essere “liberato”. Sono sul pianoro ai piedi di Sante Marie, ampia sterrata che va dritta in mezzo alla campagna vivace. Donne che raccolgono le erbe nei campi, il rumore di una segheria lì vicino. Poi l’asfalto mi scorta fino alle porte del paese, salgo la salita della via delle Tre Cannelle ed ecco Corso Garibaldi la via che quattro giorni fa ho percorso in senso inverso.

Chilometro dopo chilometro il sentiero mi è passato attraverso. Ha teso degli agguati, aspettando in quiete sui pianori nebbiosi o mordendo improvviso nelle salite ritorte di calura. Mi ha rapito per lasciare una traccia nell’animo, un timbro, un piccolo tatuaggio che testimonia il passaggio, il pellegrinaggio concluso, la meta raggiunta.

La mia macchina è lì nel parcheggio, tra dieci minuti sarò di nuovo in gabbia con il motore acceso e le gomme a consumarsi sul nastro d’asfalto che rulla senza fine.

L’anello si chiude. I briganti mi hanno liberato.

A.

Le 8 cascate più belle tra Marche e Abruzzo.

Maestose e vertiginose che cadono da alte rocce oppure piccole e nascoste in luoghi segreti, le cascate hanno la capacità di suscitare grandi emozioni nell’escursionista che le ammira.

Sarà successo anche a voi: quando si sta al cospetto di una cascata si avvertono vibrazioni positive e sensazioni di benessere, forse perché siamo a contatto con l’acqua, l’elemento fondante della vita o semplicemente perché è questo l’effetto di uno dei momenti in cui la natura si manifesta nella sua bellezza.. Questa è una lista delle cascate a cavallo tra Marche e Abruzzo, una zona di alto valore naturalistico nella quale si uniscono il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e il Parco Nazionale dei Monti Della Laga senza soluzione di continuità. Nel post trovate anche i link google maps per raggiungere in auto i punti di partenza delle escursioni.

1. Cascata della Gola dei Tre Santi

Siamo nel comune di Sarnano, provincia di Macerata nell’estremo nord del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Per raggiungere questa cascata potete parcheggiare nei pressi della bella Abbazia di S. Biagio di Piobbico o di S. Maria Inter Rivora di antica fondazione benedettina. Il cammino inizia con un sentiero che attraversa il bosco per poi entare nella Gola dei Tre Santi. Le pareti diventano pian piano sempre più strette ma il sentiero è sempre leggibile, quasi alla fine della gola sulla sinistra notate un passaggio entrate e godetevi lo spettacolo.

2. Cascata del Santuario della Madonna dell’Ambro

Siamo ancora nelle Marche, questa cascata è molto facile da raggiungere anche per chi non è allenato. Proprio dietro il Santuario della Madonna dell’Ambro in dieci minuti si arriva allo slargo da quale ammirare la cascata, sulla destra c’è poi un sentiero che vi portrà fino alla sommità del salto d’acqua. Prima di andare via non dimenticate una visita nella cripta della chiesa affrescata con le immagini delle enigmatiche Sibille, qui invece potete leggere un post sull’origine del nome Ambro. Più che un’escursione è una passeggiata ma questa cascata entra a pieno titolo nella lista per la sua bellezza. Se poi amate le escursioni toste, sempre partendo dal Santuario, potete scegliere tra l’itinerario che porta fino alle sorgenti dell’Ambro o quello che sale fino alla vetta del Monte Priora.

Cascata Santuario Madonna dell'Ambro
Piccolo scorcio della Cascata del Santuario Madonna dell’Ambro

Qui il nostro post che parla dell’origine del nome Ambro.

3. Cascata del Petrienno

Siamo nell’Appennino Perduto, zona di cesura tra i Sibillini e i Monti della Laga così chiamata perchè soggetto di un forte abbandono demografico. Si cammina su bei sentieri tra villaggi fantasma e castagneti secolari. Si può scegliere di partire dall’abbandonato paese di Tallacano o dal borgo di Piandelloro. Entrambe gli itinerari convergono verso la grotta del Petrienno dove si possono l’omonima cascata ed ammirare i resti di un piccolo villaggio rupestre utilizzato in passato da pastori e carbonai.

Cascata Appennio Perduto Petrienno
Cascata Appennio Perduto Petrienno

4. Cascata della Prata e della Volpara

Partendo dal borgo di Umito, frazione di Acquasanta Terme (AP) si prende un sentiero che costeggia il fiume, la direzione per le cascate è ben segnalata. La prima ad essere incontata dopo breve tempo è la Cascata della Prata, spettacolare e scintillante salto dai banconi d’arenaria che dà il suo meglio nelle ore in cui è attraversata dalla luce del sole. Se avete voglia di camminare, in meno di due ore potete raggiungere la vista sulla cascata della Volpara ed ammirare il suo salto vertiginoso. Occhio all’ultimo tratto un po’ scomodo e sconnesso a causa dei danni provocati da una valanga.

Cascata della Prata e della Volpara
Cascata della Prata foto da https://www.instagram.com/sibillini_laga_gransasso/
cascata Abruzzo
Cascata della Volpara. Foto di Stefano Albanesi.

5. Cascata della Morricana

Per raggiungere questa cascata si parte dalla località abruzzese di Ceppo (TE) nel Parco Nazionale dei Monti della Laga. L’ampia sterrata ci immerge nel Bosco Martese, uno degli ultimi grandi lembi intatti di faggi secolari il cui nome tradisce la presenza di un antico tempio o di un ara dedicati al dio Marte. La sterrata diviene sentiero, si continua a camminare nel bosco di faggi e rari abeti bianchi, magari nel silenzio riuscirete ad ascoltare anche il tipico rumore del picchio che becca il tronco degli alberi, costeggiando infine il lato sinistro del torrente si arriva al piccolo ma suggestivo anfiteatro roccioso che ospita la cascata. Se avete gamba potete seguire il sentiero che sale oltre la cascata e proseguire per proseguire per i suggestivi prati d’altura degli Jacci di Verre, ammirare i curiosi faggi torti e chiudere l’anello.

Cascata della Morricana
Cascata della Morricana

6. Cascata del Caccamo, Gole del Salinello

Ancora i Monti della Laga, ancora Abruzzo per un’escursione molto facile ma ricca di cose belle da vedere. Lasciata la macchina nell’ampio parcheggio a Ripe di Civitella (TE) vedrete subito il sentiero sassoso che scende in direzione del torrente. Dopo poco vedete sulla destra il sentiero roccioso che sale fino alla Grotta di San Michele, frequentata fin dal paleolitico e sede di un celebre eremo. Riprendendo il sentiero che scende arriverete a un bivio: a destra andrete in una mezz’ora alle belle Gole del Salinello, a sinistra invece potete scendere aiutandovi con i passamano in corda lungo il ripido sentiero fino a quersta splendida cascata. Il nome “Caccamo” può significare “pentola” ed è forse riferito alla piccola ma profonda pozza d’acqua ai piedi della cascata. Che ne dite di un tuffo? A fine escursione raccomandatissima una visita alla vicina Civitella del Tronto del circuito “I borghi più belli d’Italia” e alla sua fortezza.

Gole del Salinello, Cascata del Caccamo
Gole del Salinello, Cascata del Caccamo

7. Valle delle Cento Cascate

Uno dei luoghi in cui l’arenaria, pietra impermeabile dei Monti della Laga, compie il suo capolavoro. Partite dall’abitato di Cesacastina, in provincia di Teramo: per il sentiero ben segnalato, si arriva in quota tra salite e parti in piano. Si costeggia il letto del torrente tra faggi centenari fino ad arrivare a questo monumentale complesso dove l’acqua dà spettacolo tra letti d’arenaria, piccoli salti e cascate. Massima attenzione a non avvicinarsi troppo perchè l’arenaria bagnata è molto scivolosa. Per il resto buona visione! Volendo si può proseguire per un anello basso o salire alla cresta del Monte Gorzano da dove ammirare un bellissimo panorama sul Lago di Campotosto.

Cascata Cesacastina Cento Fonti
Cascata Cesacastina Cento Fonti

8. Cascate delle 7 Fonti

Siamo in zona del comune di Amatrice. In macchina si prende la strada che porta alla località di Macchie Piane e poco prima di arrivare all’abitato sulla sinistra si notano le indicazioni del sentiero per le Sette Fonti. Anche questo è un complesso di cascate altamente suggestivo, lo si raggiunge in circa 30 minuti di cammino, e anche in questo caso massima attenzione all’arenaria che bagnata può diventare una saponetta. Se avete gamba potete proseguire fino a raggiungere la cresta che vi porta al Monte di Mezzo e al Pizzo di Sevo celebre vetta della Laga. Da qui si ridiscende per il mitico Tracciolino di Annibale, il sentiero il cui nome tradisce il passaggio del condottiero cartaginese per tornare dall’altro versante fino a Macchie Piane e quindi alle auto.