Wanderlust: i sintomi della “sindrome” del viaggiatore.

Se già siete con il termometro in mano, credo che prima di tutto vorrete sapere cosa significa wanderlust in italiano. Com’è che faceva quella canzone? “Wherever i may roam, wherever i may wander, wander, wander…”. Si chiudeva così il pezzo dei Metallica del loro monumentale Black Album, con quel verbo “wander” che veniva cantato e ripetuto con voluttà ed energia. La parola wanderlust che di solito traduciamo con “voglia di viaggiare” in inglese ha un significato più profondo e appunto viscerale, viene infatti da “to wander” cioè perdersi, girovagare e “lust” che è voglia, brama, desiderio lussurioso. Il significato di wanderlust è allora “voglia di girovagare” o anche “desiderio di perdersi”. Beh, non vi sembra una cosa abbastanza naturale? Non vi è mai capitato di avere questa gran voglia di andare in giro magari senza una vera meta?

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Verso il Pizzo della Regina, Monti Sibillini

Ma allora perchè si parla spesso di sindrome di wanderlust?

La rete è disseminata di post e contenuti che elencano i sintomi di quella che è percepita quasi come un’ossessione. Facendo una selezione, questi sono i sintomi da sindrome di wanderlust più gettonati che devi tenere d’occhio.

  • Hai desiderio viscerale di viaggiare, conoscere posti nuovi e gente nuova
  • Hai ossessione per i prezzi dei voli e visiti frequente i siti delle compagnie aeree
  • Risparmi ogni giorno in prospettiva di un nuovo viaggio
  • Quando sei a casa non sei pienamente soddisfatto
  • Hai nostalgia dei viaggi passati
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Balzo Rosso, Monti Sibillini

Questi nostri tempi sono fatti così: appena un comportamento si discosta di un tanto dalla linea chiamata per convenzione normalità, si attivano immediatamente meccanismi di catalogazione che spesso e volentieri, quando non riescono a far rientrare il fenomeno all’ovile dei comportamenti standard, lo si manda in viaggio premio tra le lande brumose di indefinite fobie e patologie.

Credo proprio che sia andata così anche per la wanderlust. Insomma forse i sintomi suddetti non andrebbero considerati come tali.

Sarete anche voi d’accordo. A meno che non si preferisca essere un orso sedentario – e se vi piace e vi sta bene così, ne avete tutto il diritto – alzi la mano a chi ogni tanto non prende quella voglia di uscire e andarsene in giro, guardare posti nuovi e magari fare anche nuove amicizie. Magari non necessariamente prendendo l’aereo. Può essere un viaggio, piccolo ma non povero di sorprese, anche randagiare e fare due passi su qualche via dell’isolato del proprio ufficio. Incontri, dettagli e atmosfere inedite sono sempre lì pronti a tendere il loro agguato a chi è disposto con animo attento e curioso. E ancora, è pratica saggia da parte del viaggiatore oculato tenere d’occhio il momento più conveniente in cui prenotare un volo un albergo o un’auto a nolo. Oltrettutto il viaggiatore ha il suo salvadanaio dedicato ai viaggi, perché sa bene che non c’è denaro meglio speso che quello speso per viaggiare. Ma questo non è certo un elemento per considerarsi addicted così come non lo è sbuffare quando si sta a casa e si ripensa ai posti che abbiamo visitato in passato. Lo stiamo sperimentando in questi giorni di quarantena quanto può essere frustrante e limitante oltre che stancante starsene tra le quattro mura. La mente vaga, ripensa ai viaggi passati certo con una buona dose di nostalgia, e nello stesso tempo viaggia e immagina i prossimi viaggi che si potranno fare quando finalmente saremo liberi di uscire.

Allora la wanderlust cos’è? Non esiste?

“Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. “

Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza

Una recente ricerca pubblicata dalla rivista “Evolution and Human Behaviour” punta il dito su un gene che sarebbe responsabile del manifestarsi della wanderlust. Questo gene è associato ai livelli di dopamina del cervello ed è correlato con la presenza di curiosità ed irrequietezza. La dopamina è un neurotrasmettitore noto come l’ormone del piacere e della ricompensa, e quando è in circolo la differenza in termini di benessere la si sente eccome. Insomma quando si va in giro a vedere posti nuovi e a fare esperienze nuove il cervello è contento, questa cosa gli piace un bel pò e ci ringrazia con la dopamina.

Sembra di sentire riecheggiare le parole di Bruce Chatwin: lo scrittore perdutamente innamorato del viaggio era fermamente convinto che l’uomo fosse nato per essere nomade e che la sua attuale fase sedentaria e stanziale fosse qualcosa di restrittivo e innaturale.

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Pizzo del Diavolo, Monti Sibillini

Più che una malattia dunque saremmo di fronte a un’impronta genetica scaturita dagli albori della nostra storia evolutiva. Una vicenda cominciata nel momento in cui ci siamo alzati sulle due gambe e abbiamo osservato da quella prospettiva inedita il mondo intorno a noi. Ci siamo alzati per guardarci meglio alle spalle quando minacciati, ma anche per guardare avanti verso l’orizzonte in cerca di nuove esperienze e opportunità. E quando le gambe hanno cominciato a mettere un passo davanti l’altro, le mani sono state finalmente libere di fare e disfare, di creare, modellare e costruire, sancendo una vera e propria rivoluzione tecnologica, la prima di una lunga serie.

L’irrequietezza dunque è una specie di spia che il nostro dna ci accende sul cruscotto. Sono messaggi che vanno colti, ascoltati e interpretati. La voglia di viaggiare è insita nella nostra natura e piuttosto che una sindrome o una malattia è uno strumento di crescita, un vero e proprio passaggio di un percorso evolutivo. Se dopo aver fatto un bel viaggio ci rimane addosso la voglia di ripartire, non abbiamo nessuna malattia o ossessione. È come quando ci si innamora. Non pensiamo ad altro e non viviamo per nient’altro. Semplicemente ci si è aperto un mondo, come si dice, una nuova dimensione e un nuovo modo di conoscere noi stessi e la bellezza che ci circonda. Sia essa a dieci ore d’aereo o dietro l’angolo, magari proprio in quella via della mia città della quale fino a ieri ignoravo completamente l’esistenza.

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Anfiteatro di Campo Pericoli, Gran Sasso d’Italia

Ma gli universi sognano incisioni rupestri?

“Io credo che il mondo esiste indipendentemente dall’uomo; il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso” (Italo Calvino)

La scorsa primavera eravamo in Valcamonica, nella zona inserita, prima in Italia, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco: abbiamo visitato il Parco Nazionale delle Incisioni rupestri presso Naquane, il Parco Archeologico dei Massi di Cemmo e il Parco Archeologico-Comunale di Seradina-Bedolina. Molto materiale interessante lo si trova sui vari siti ufficiali, ma essere lì, camminare in un ambiente naturale splendido e osservare da vicino le incisioni è stata davvero una bella esperienza. Qualche tempo dopo ho preso tra le mani “Le città invisibili” di Italo Calvino. La tentazione è stata troppo grande: cercare tra le pagine quella città che avesse il potere di evocare in qualche modo le suggestioni dei posti che abbiamo visitato. Proprio per la presenza delle incisioni, la Valcamonica è detta anche “La valle dei segni”, perciò senza starci troppo a girare intorno, ho voluto pescare nella categoria che nel libro è detta “la città e i segni”.

È stato il primo brano a spiccare all’istante, proprio perché inizia dentro un bosco:

“L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.”

Noi non avevamo la tigre, ma un picchio intento a picchettare il tronco di qualche albero e al posto dell’ibisco, delle felci stupende che stavano germogliando; ma gli alberi – castagni centenari, carpini, abeti e betulle – e anche le pietre lisce e violacee, pur con tutta la loro indiscutibile bellezza sarebbero rimasti muti, forse ridondanti e uguali a sè stessi, se non fosse stato che, a un certo punto, prima radi e poi sempre più copiosi sono comparsi i segni incisi.

Su ogni pietra c’è da soffermarsi a scrutare le tante immagini con cui gli uomini che hanno abitato la valle dal quinto millennio a.C. fino all’età del Ferro, hanno voluto rappresentare la loro quotidianità, il loro immaginario, il loro mondo spirituale. Si riconoscono figure di uomini in preghiera, di guerrieri, e poi cervi e armi e case costruite su palafitte, addirittura carri con le ruote e telai. È una sorta di esplosione, la Roccia 1: con quella spaccatura orizzontale dà proprio l’idea di un guscio che si è rotto e dal quale stanno uscendo, verrebbe da dire si stanno originando, tutte quelle figure tanto fitte e tanto varie; sembra un getto continuo, prepotente, fluviale come soltanto un intimo universo ricco e immaginifico riesce ad essere.

“Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono tra i muri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose”

Oramai da un secolo le incisioni rupestri della Valcamonica sono oggetto di studi appassionati. Ogni volta quei segni si addensano di significato, gettano ponti sui millenni, stimolano ipotesi, evocano interpretazioni. I significati, le informazioni contenute nel segno, sopravvivono alle morti e alle consunzioni; l’occhio osserva, la mente elabora, la mano incide ciò che la dimensione intima suggerisce: le pietre dicono che queste attitudini e processi esistono da quando esiste l’uomo. E dicono anche che l’uomo ha sentito da sempre l’esigenza di alzare le mani al cielo, di pregare: molto frequenti sono le figure di uomini in posizione orante, con le braccia rivolte verso l’alto. I Camuni veneravano una divinità antropomorfa con la testa di cervo. Il cervo, lo testimoniano le molte incisioni, era la loro prima forma di sostentamento. Il loro dio era anche il loro cibo, ciò significa che l’intuizione o la percezione di un dio che si fa uomo e che per l’uomo diviene cibo è qualcosa di estremamente ancestrale.

Incisioni rupestri Val Camonica
foto da http://www.unesco.it/

Sporgersi su questi segni, per certi versi è come guardarsi allo specchio. Vedi che in fondo poco o nulla è cambiato. Stesso bisogno di rivolgere le mani al cielo, stesso bisogno di sentire affine la dimensione divina, stessa volontà di incidere e inscrivere e fissare qualcosa di te e del tuo mondo prima che arrivi l’Ombra vorace. La superficie di questo specchio segna un confine: è il limite esatto in cui il bosco, il mondo naturale, ha cessato di ripetersi, di essere indistinto e sempre uguale a se stesso. È il momento in cui compare l’uomo assieme ai suoi segni, i riti e i significati che contengono. Da quel momento in poi, il bosco e la natura, l’universo non sono stati più gli stessi. Per legge naturale e universale cessano di essere ciò che sono. È il tempo di una nuova genesi: perché genesi fu quando la materia ha invaso densa il vuoto, e genesi è stata, in un secondo big bang, quando la materia ha iniziato a respirare e a nutrirsi e a riprodursi, quando l’elemento inerte è divenuto essere vivente.

Questo è uno dei luoghi dove è ancora possibile captare gli echi del terzo big bang, nella radiazione di fondo che lo permea si comincia a leggere la nuova genesi: la materia oltre a vivere pensa e ragiona, queste sono le scintille residue di quando il logos si è acceso nelle masse cerebrali, colmando le distanze sinaptiche. E dunque l’occhio ha guardato e la mente ha elaborato e la mano ispirata ha cominciato a produrre simboli, e dunque significati. Poi, insoddisfatte, quelle menti hanno cominciato a pensare di rappresentare altro mondo ancora, e dunque hanno sentito il bisogno di nuovi strumenti, di nuove parole e di numeri. Di calcoli e misure, e soprattutto, strumento più potente degli altri, di astrazioni. Gli occhi, con la mente, guardano e spaziano, l’immaginazione scalpita come fosse caricata di ancestrali energie: l’immaginazione è l’asimmetria del vuoto dalla quale si propagherà l’esplosione imminente di una  nuova genesi, ma senza l’astrazione, senza segno e simbolo, non diverrebbe significato, non riuscirebbe a contenere informazione. Senza la capacità di rappresentare e astrarre, senza segno, non sarebbe che energia dissipata, non troverebbe un pertugio per il quale liberarsi dalla condizione potenziale e divenire atto, non avrebbe un canale attraverso il quale lasciare la dimensione della possibilità per guadagnare quella della realtà.

Per ultimo, abbiamo visitato il Parco Archeologico Comunale di Seradina e Bedolina. I percorsi salgono lungo il fianco della montagna, ancora splendide incisioni sulle rocce modellate dai ghiacciai in forme plastiche e sinuose, spesso tappezzate dai fichi d’india nani che prosperano grazie a un particolare microclima. Dopo un’ora buona di cammino, si arriva in cima al colle dal quale la vista spazia su tutta la vallata. Tra le timide vigne, sulla pietra di arenaria ampia e piatta, le incisioni iniziano a formare quadrati ed ovali, riempiti di piccoli incavi, collegati tra loro da linee che si intersecano creando fitti reticolati: è la mappa di Bedolina, ritenuta fin dalla sua scoperta una rappresentazione dei luoghi, delle strade e dei villaggi Camuni che da lassù potevano essere visti nell’Età del Ferro. La mappa, anch’essa rappresentazione simbolica, necessita del numero e della misura, ma soprattutto della capacità di astrazione. La mappa è organizzazione astratta di un territorio, di una parte di mondo.

“Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.”

Il logos si è fatto spazio attraverso le tenebre, la scintilla si è accesa nelle masse cerebrali e adesso le mani e la mente vanno come se stessero sotto dettatura. Da dove arriva la voce che dice cosa incidere, cosa scrivere, cosa e come raccontare, cosa e come progettare e innalzare? L’uomo osserva, registra, memorizza: è una antenna in perenne ascolto di una informazione che viene trasmessa dall’inizio dei tempi. Forse nel momento esatto in cui la città-universo ha cessato di essere bosco muto e intercambiabile, lasciando che questa nuova specie, questi esseri viventi dotati di raziocinio facessero i loro conti e creassero i loro simboli, è stato quello il momento in cui il Creato ha voluto aprire gli occhi su se stesso. Per la prima volta ha sentito di essere osservato, di essere ascoltato; e allora ha voluto lasciare per iscritto gli atomi e le stelle e le galassie, e i cervi e la montagna, volendo forse interrogarsi, assieme all’uomo, su quale sia il senso di tutte queste cose. Sulla sua stessa origine e il principio di tutto, su quale sia l’Alfa, se mai abbia un volto, se abbia le gambe le braccia e la testa di cervo, o piuttosto la forma di triangolo equilatero o ancora se sia davvero quell’uomo agonizzante in croce.

“Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…”

Sotto: la Roccia 1 e la Mappa di Bedolina

Incisioni rupestri val camonica
incisioni rupestri val camonica

Per tutte le info: http://vallecamonicaunesco.it/

L’Abruzzo che ispira, in cammino da Villalago a Scanno.

Dal silenzio si levano i canti delle folaghe, poi è la superficie dell’acqua a incresparsi e spezzarsi con i loro voli che si alzano appena mi sentono arrivare. Il cammino comincia dall’eremo di San Domenico, la sua bella finestra con le bifore che danno sul lago – è più bello il quadro o la cornice? – il sentiero comincia subito a salire serpeggiando nel bosco sul fianco del colle. In un quarto arrivo su un ampio belvedere, una bella vista sul lago con il vecchio ponte e la gola che si stringe. Oltre la linea del monte c’è Anversa degli Abruzzi che stamattina era splendida illuminata dal primo sole. Spesso parto da lì in gruppo per arrivare a Castrovalva e poi scendere nelle Gole del Sagittario.

La finestra con le bifore dell’eremo di San Domenico.

Castrovalva è un bel borgo costruito su uno stretto crinale, quando ci arriviamo mi piace sempre raccontare di quella notte in cui l’olandese fu convocato in caserma con l’accusa di aver partecipato all’attentato al re d’Italia. Dopo la mattina in caserma, dopo che dimostrò la sua innocenza se ne tornò nero in paese e per sbollire si mise a disegnare, una giornata di quelle storte da raddrizzare almeno con un po’ di lavoro. Disegnò fino a sera e alla fine gli portò fortuna quel pugno di case immerso in una natura intatta perché fu proprio la stampa di Castrovalva a far avere la prima vera pacca sulle spalle da parte della critica a Maurits Cornelis Escher , l’olandese perdutamente innamorato dell’Italia più profonda.

Castrovalva nell’illustrazione di M.C. Escher

Ora il sentiero porta direttamente alle prime case di pietra di Villalago. Anche Villalago l’hanno voluta costruire lungo la cresta di un alto crinale. Troppo bello entrare in paese camminando per vie antiche, è come aprire vecchie pagine scritte a mano. La prima persona che incontro è un vecchio che mi da il buongiorno accompagnato da uno sguardo chiuso sotto un ciglio arcigno come il crinale del suo paese. E quello sguardo è un tutt’uno con le case che sono un tutt’uno con la roccia. Case addossate una sull’altra, due vie principali e parallele dalle quali si diramano gli stretti reticoli. Castrovalva e Villalago sembrano nascere dalla roccia come per una reazione spontanea. Sembrano l’ordine al suo primo stadio, una geometria primigenia che sorge dal caos della materia informe e si autorganizza. I tetti delle case come parallelogrammi che spezzano lo spazio fino a legarsi a valli e poi ai monti e alle colline nel continuo andare di una trasformazione senza fine.

Anche qui c’è passato l’olandese, forse ha iniziato a concepire la sua metamorfosi proprio stando immerso in questo paesaggio. Sto percorrendo via Grossi, tra alte e strette pareti su cui si aprono finestre e portali, attraverso il punto esatto rappresentato nella “Natura morta con specchio”.

Attaccato al muro un piccolo crocifisso e il santino di San Domenico Abate, il santo che a Cocullo, paesino a pochi chilometri di distanza, viene portato in processione con decine di serpenti vivi avvinghiati. Una casa torre sale improvvisa tra due alte case. Villalago voleva prima di tutto difendersi, arrampicandosi su quest’alto crinale certo, ma anche tenendo vicini e serrati, ovvero uniti, i suoi abitanti.

Ora di nuovo si cammina a scendere, le vie degradano verso una bella piazza illuminata dal sole, degli uomini discutono di vecchi schieramenti politici, dalla bacheca di un’edicola un titolo a grandi caratteri dice della scoperta di una discarica abusiva di eternit. Poi tutto in piano lungo la ciclabile fino al bordo del lago di Scanno. Lo costeggio per qualche minuto poi salgo per il sentiero a destra. É un’ampia sterrata che poi si assottiglia entrando nel bosco, arriva ad una sella per poi scendere fino ad aprire la vista sulle case di Scanno. Proprio quando sotto le suole compare l’asfalto incontro questo tizio che esce dalla macchina dopo aver attraversato un passaggio limitato da una sbarra. Gli chiedo se sono in una proprietà privata, mi dice di no ma se voglio arrivare a Scanno posso anche prendere quel sentierino che scende dietro casa sua. La casa era di suo nonno mi racconta, all’inizio era isolata dal paese e quello era l’unico sentiero per raggiungerlo. E’ mangiato dai rovi in alcuni punti mi avverte, ma poi lo si segue senza intoppi. Piccole fortune. Posso entrare anche a Scanno per antica via. Quando arrivo resto ad ammirarla da un ampio terrazzone.

Scanno.

Lo stomaco brontola, in una piazza chiedo a due signori dove trovo un’alimentari. Me ne indicano uno proprio lì su quella via. Quando torno con i miei due panini riempiti da una commessa assai generosa li trovo ad aspettarmi ancora lì sulla piazza. Trovato? Mi chiedono. Certo che l’ho trovato mille grazie. Ho una busta con dentro due bei panini uno col prosciutto e l’altro con il salame di qui. Mi siedo sulla panchina con il solo pensiero di addentare quelle belle fette di pane cotto a legna riempite dalla commessa generosa ma loro vogliono attaccare bottone. Chi sei da dove vieni? dalle Marche tutta a piedi? Quando gli dico che sono una guida e che sono venuto a dare uno sguardo apriti cielo. Cominciano a raccontarmi che stanno preparando un cammino da Scanno fino al Lazio per un antico tratturo di transumanza. Elencano tappa per tappa, nomi di paesi, collegamenti tra sentieri e loro varianti, tempi di percorrenza, distanze e dislivelli. Io penderei pure dalle loro labbra se non avessi il pensiero di quei due panini nella busta di plastica, giuro e spergiuro che seguirò il loro progetto, loro continuano dicendomi dell’estate scorsa di quando hanno camminato con un grande gruppo, quest’estate faranno lo stesso e sembra uno di quegli interminabili dialoghi dei film di Tarantino dove poi all’improvviso tutti cominciano a spararsi addosso e di fatti appena mi salutano e se ne vanno cavo fuori il primo panino, quello col prosciutto e lo addento con dei morsi da sparatoria.

Dopodiché è un’immersione dentro Scanno, in questo labirinto di scale e scalette, vie slarghi e piccole piazze, panni stesi fontanili portali alcuni dei quali di una ricchezza fuori dal comune. Questo paese è caleidoscopico per la miriade di scorci che offre quasi ad ogni passo. Scanno è diventata grande e bella grazie alla pastorizia, e grandi nomi l’hanno poi reso celebre come paese dei fotografi. “Il bambino di Scanno” di Mario Giacomelli è esposta al Moma di New York, la “Mater Carmeli” sarà eletta da Henri Cartier Bresson quasi in punto di morte come la sua foto più significativa; ma prima di loro fu Hilde Lotz-Bauer con la sua Leica negli anni ’30 a rimanere abbacinata dalla bellezza di questo paese e della sua gente. Comune denominatore di questi scatti più degli scorci sono gli abitanti di Scanno ed in particolare le sue donne.

E in questo lembo d’Abruzzo, scoperto dagli occhi di quei viaggiatori come terra primigenia, le donne sono depositarie di riti di un’epoca matriarcale. E’ vicina la Majella montagna madre. Con i suoi boschi sacri e le sue pietre curative, gli alberi magici e le grotte ventri ancestrali dove gli eremiti scalavano le vette del digiuno. Quelle donne nascono dalla montagna madre, sono una sua diretta emanazione. Con le loro mani perpetuano gesti dall’ascendenza rituale: fanno il pane, raccolgono l’acqua, accendono fuochi e nei calderoni mischiano l’acqua con foglie di frassino per tingere la lana. Il senso del divino si cala nei loro gesti quotidiani, l’energia della Montagna Madre si raggruma nei loro corpi che quasi trascendono quando sono vestiti di quegli abiti, eleggendole a vestali con le loro offerte.

1930, Hilde Lotz-Bauer
1930, Hilde Lotz-Bauer
Mater Carmeli. 1951, Henri Cartier-Bresson

Lascio Scanno camminando fino all’Eremo di Sant’Egidio. Da lì il sentiero porta al punto panoramico da dove si può guardare il lago nella sua tipica forma a cuore. Poi ridiscendo e alle porte di Villalago resto basso sulla stretta provinciale. Costante la presenza dell’acqua del Sagittario, dopo Scanno il fiume ricomincia a scrosciare e a correre per poi placarsi ancora al lago di S.Domenico. Una quantità di azzurri colmano il catino di roccia, il sole scende dietro il colle, la superficie dell’acqua è increspata negli ultimi riflessi luminosi. Tra un po’ si conserverà nella notte qualcosa di un mondo ancora intatto. Le folaghe stanno in silenzio, il cerchio del cammino si chiude.

1951, Henri Cartier-Bresson

Cammini in Italia: 10 splendidi itinerari.

Quando si parla di cammino storico è inevitabile che il pensiero corra al Cammino di Santiago. Il più celebre, il più percorso, il più organizzato in termini di ospitalità. Da anni le statistiche ufficiali riportano una crescita costante delle presenze e forse proprio in virtù di questo successo è diventata una metà forse inflazionata e in qualche modo ridotta a clichè del cammino, pur nelle sue molteplici varianti (link). Anche in Italia ci sono cammini storici e ci mancherebbe! La nostra penisola trabocca di sentieri sui quali da secoli hanno camminato pellegrini di tutta Europa! Se allora vuoi camminare “contro corrente” scoprendo cammini storici meno frequentati di Santiago ma non per questo meno privi di fascino ecco una lista dei Cammini d’Italia. Li hai tutti a portata di mano senza dover prendere l’aereo, darai una grossa mano all’economia nostrana, li potrai percorrere interamente o a piccole tappe o a pezzi, sei libero di scegliere in base al tempo e allenamento, ma comunque tienili in considerazione se hai in mente di progettare il tuo viaggio a piedi lungo un cammino storico.

La Via Francigena.

Da Canterbury a Roma, ricalca le tappe elencate dall’arcivescovo Sigerico nel suo viaggio di ritorno a Canterbury nell’anno 990. Inghilterra, Francia Svizzera e Italia. Sono queste le nazioni attraversate dall’intero itinerario. Con i suoi oltre duemila km è il diretto concorrente del Cammino di Santiago. Nel tratto Italiano attraversa le regioni Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Lazio cambiando ambienti naturali e contesti storici e ambientali con una frequenza che solo la penisola italiana può offrire. Qui il sito ufficiale. Il progetto si sta sviluppando collegandosi alla rete sentieristica della Via Francigena del Sud.

Cammini d'Italia
Via Francigena, Cappella della Madonna di Vitaleta  https://www.flickr.com/photos/gregoriosarnataro/

Cammino Francescano della Marca.

Da Assisi ad Ascoli Piceno seguendo i passi del Santo patrono d’Italia nei suoi viaggi di evangelizzazione tra l’Umbria e il territorio marchigiano del Piceno. Se 120 km vi sembrano pochi sappiate che vi sono condensati scenari vari, ricchi di storia arte e natura. Si va dalle paludi di Colfiorito fino alle pendici dei leggendari Monti Sibillini. Gran finale nella città delle cento torri. Un giorno in più dovete assolutamente preventivarlo per una visita di Ascoli Piceno e il suo meraviglioso centro storico. Qui il sito ufficiale e qui la mia intervista agli ideatori.

Cammini d'Italia
Cammino Francescano della Marca.

Cammino nelle Terre Mutate.

Sono passati più di tre anni e ancora nel centro Italia sono visibili le ferite del sisma. Camminare da Fabriano a L’Aquila diviene strumento di consapevolezza ed esperienza solidale verso i territori e gli abitanti che vivono nei luoghi trasformati dal terremoto che ha interessato un’area che si estende sulle regione di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Nonostante le ferite sono luoghi che conservano bellezza intatta tra cui spiccano i paesaggi dei leggendari Monti Sibillini e dei maestosi e selvaggi Monti della Laga. Qui il sito ufficiale.

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La Piana di Castelluccio in fiore e la guida di recente pubblicazione. Foto dal sito ufficiale

Cammini dei Borghi Silenti

Il Cammino dei Borghi Silenti è un percorso ad anello di 90 km circa che si sviluppa nella parte sud est dell’Umbria alle pendici dei Monti Amerini. Zona in prevalenza collinare è con campagne e boschi che compongono il cuore verde di questo cammino. Le cime che si raggiungono non sono aspre, il percorso si sviluppa tra collina e media montagna, attraversa campi e coltivi, grandi boschi ma soprattutto i piccoli borghi medievali molto caratteristici e ben tenuti che danno il nome al cammino.

Scalato su cinque tappe, volendo lo si può percorrere anche in quattro giorni.

Cammino dei Briganti.

La storia che non trovi sui libri di scuola. Si cammina in terre di antichi confini a cavallo tra Lazio e Abruzzo oggi, Stato Pontificio e Regno Borbonico ieri. Davvero i briganti erano criminali oppure le loro figure di spiriti liberi e rivoluzionari andrebbero riabilitate? C’è solo un modo per schiarirsi le idee: percorre i circa 100 km di anello che si sviluppa nelle terre della Marsica e del Cicolano. Necessario occhio attento e guida in mano, gli organizzatori ci tengono a precisare che pur essendo presente, la segnaletica non è così fitta come ad esempio ci si aspetterebbe sulla Via Francigena. Insomma quel pizzico di wilderness che non guasta mai. Qui il sito ufficiale.

Cammini d'Italia
L’interno della chiesa di S:Maria in Valle Porclaneta. Tappa obbligata del Camino dei Briganti. Foto da: https://www.tripsinitaly.it/

Via degli Dei.

Da Bologna a Firenze per una plendida immersione nell’appennino tosco-emiliano. Il cammino nasce da un’idea di appassionati escursionisti che decidono di ricalcare antichi tracciati percorsi da Romani ed Etruschi: Sono toponimi come Monte Adone, Monzuno (Mons Iovis, monte di Giove), Monte Venere a suggerire il riferimento “divino” del nome. Con i suoi agevoli 130 km è uno dei cammini d’Italia più gettonati e frequentati. Necessario quindi prenotare strutture con un certo anticipo. Occhio ai mesi con il meteo più capriccioso per la presenza di passi in alta quota. Qui il sito ufficiale.

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Basolato romano come sentiero sulla Via degli Dei. Foto da https://www.instagram.com/laviadeglidei/

Cammino di S. Benedetto.

Esperienza di cammino a piedi super consigliata per il suo valore storico e artistico. I 300 km di sentieri e strade a basso traffico che si snodano da Subiaco nel Lazio fino a Cassino in Campania, ripercorrono i luoghi che hanno contraddistinto la vita di San Benedetto da Norcia: il santo che voleva fare l’eremita e che divenne con il suo Ordine pietra fondante della ricostruzione culturale e sociale avvenuta dopo il caos seguito al crollo dell’Impero Romano. Qui il sito ufficiale.

Cammini d'Italia
il monastero di Subiaco. Fonte: IStock

Cammino Materano.

Della serie tutte le vie portano a Matera. Tanti i cammini del Sud Italia che avevano la città dei sassi come meta, ed ecco che unendo gli itinerari nasce la ragnantela che converge a Matera. Dei percorsi che formano il cammino materano, (la via Peuceta, la Ellenica, la Sveva. La Dauna e la Lucana), al momento gli unici cammini segnalati e percorribili in autonomia è la Via Peuceta da Bari a Matera e la Via Ellenica da Brindisi a Matera. Ma il progetto è un work in progress da tenere d’occhio perchè promette risultati davvero interessanti. Qui il sito ufficiale.

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In cammino lungo la Via Ellenica del Cammino Materano. Fonte: https://camminomaterano.it/

Magna Via Francigena di Sicilia.

Da Palermo ad Agrigento, dal Tirreno al Mediterraneo in cammino sui sentieri percorsi dai pellegrini verso i porti d’imbarco per Roma e per la Terra Santa.. 184 km distribuiti su 9 tappe per respirare a pieni polmoni la storia millenaria della Sicilia dalle frequentazioni fenice e greche passando per la presenza araba e normanna fino ai giorni nostri. Qui il sito ufficiale.

Cammino delle 100 Torri.

Ma quanto sono pazzi i Sardi? Piacevolmente tanto è la risposta a giudicare dal progetto del Cammino delle 100 Torri, un periplo dell’intera isola per un totale di 1284 km. Strutturato su 8 cammini, ognuno dei quali racconta una diversa Sardegna, mette alla prova l’escursionista esperto e navigato per un’esperienza di totale immersione nelle molteplici dimensioni di quest’isola da scoprire a ritmo lento nella sua anima più autentica e profonda. Qui il sito ufficiale.

Cammini d'Italia
Foto da: https://www.facebook.com/sullestradedellavventura/

Gargano: in cammino tra gli eremi di Pulsano.

La luce del mattino cade sull’abbazia, la sua pietra si accende rosea poi arancio man mano che il sole si alza sul cielo sgombro. Fin qui dopo molti chilometri fatti in autostrada a ridosso dell’alba. Ho deciso di partire sul presto. Sono settimane che in autostrada si formano code e ingorghi tra lavori in corso e viadotti sotto sequestro. Fuori dalla A14 a San Severo. Poi per San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo e si entra nel cuore del Gargano: l’isola ancestrale, divenuta promontorio con il ritarsi delle acque, lo sperone d’Italia, la Montagna sacra a guerrieri, pellegrini e pastori transumanti. Ogni tanto sul bordo strada i cartelli segnaletici dei sentieri della Francigena Micaelica, la grotta dell’Arcangelo è a un passo, dopo Monte Sant’Angelo la strada costeggia la campagna brulla ornata di muretti a secco e ulivi, vacche e asini brucano pigri i ciuffi d’erba.

Prima di fare l’ultimo tratto che porta al parcheggio dell’Abbazia di S.Maria di Pulsano c’è un grande cancello chiuso. Un cartello a lato dice di spingere il pulsante per aprire. Sotto c’è un pulsante. Sulle prime penso che quel cancello non si aprirà mai. Spingo il pulsante e il cancello si apre. Lascio la macchina nel grande spiazzo, metto gli scarponi e mi carico lo zaino. Già si vede il bordo roccioso di valle Campanile, il profondo vallone degli eremi. Sono molti gli insediamenti rupestri abbandonati ormai da tempo che punteggiano le pareti rocciose, alcuni sono inaccessibili, altri li si possono raggiungere per sentiero.

cammino eremi gargano
L’ingresso dell’Abbazia di Santa Maria di Pulsano.

Quota 400 metri sul mare, si sta in alto ma non c’è traccia di vento. Un bell’esemplare di corvo imperiale gracchia alto nel blu mentre traccia il suo volo circolare. Il silenzio è teso, si sente il suono piumato dell’ala che rema nell’aria. Il sentiero che scende lungo il fianco della Valle dei Romiti si legge bene. A tratti è terra che striscia tra l’erba. Poi torna la nuda roccia segnata di passaggi secolari. Hanno molto lavorato i monaci, non solo per costruire gli eremi ma anche per collegarli tra loro: hanno inciso tracce e passaggi, hanno scolpito scalini sul bordo dei precipizi.

Il primo eremo che si incontra è quello di S. Margherita. Anticipa un po’ l’impostazione degli altri eremi: c’è una parte naturale, la grotta, e una parte artificiale fatta di murature di protezione, volte a botte e muri di terrazzamento.

Si scende ancora e si arriva alla biforcazione dove da una parte si apre il sentiero verso mare e dall’altra si imbocca per Valle Campanile. Prendo per questa seconda direzione, per la valle dove stanno la maggior parte degli eremi. Mano a mano che i passi si sommano su questi sentieri, echeggiano vive le parole di S. Atanasio nella sua Vita di Antonio: “e così apparvero dimore di solitari sui monti e il deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si erano iscritti nella cittadinanza dei cieli”. Gli eremi sono circa una ventina in totale, un villaggio diffuso, fiorito così in questa zona arida e impervia danno un’idea di come dovevano essere gli eremi fondati in Egitto da Sant’Antonio, considerato storicamente il primo eremita del Cristianesimo. Il vallone è ripido e stretto, verso mare strutture trasversali per frenare le piene, in fondo si apre il golfo di Manfredonia chiaro e luminoso, sul fianco opposto, su un alto spuntone di roccia l’eremo La Rondinella, inaccessibile a piedi; tengo la direzione, c’è uno strappo di dislivello poi tra appoggi accennati e scalini scolpiti si arriva all’Eremo del Mulino. L’ultimo tratto che porta all’entrata è uno stretto banco di roccia, a sinistra l’alto paretone e a destra la vista vertiginosa sul vallone. Sono fortunato, sono stati giorni secchi, in presenza di aria umida o pioggia dovrebbero diventare piuttosto infidi.

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Il sentiero di ingresso dell’Eremo del Mulino con la canaletta incisa.

L’Eremo del Mulino è molto ampio e strutturato. Ha vari ambienti da quelli dedicati alla preghiera a quelli per la vita di tutti i giorni, le celle per dormire, i piccoli orti terrazzati. In una nicchia scavata nella parete c’è la sede della macina, questa giace tra l’erba poco distante in uno dei terrazzamenti perimetrati dai muretti a secco. Senza dubbio è stata fabbricata sul posto.

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La macina da Mulino e l’eremo sullo sfondo

Per riprendere il sentiero bisogna uscire dall’eremo e scendere sulla traccia che piega verso il fondo del vallone, aggirare con un po’ di attenzione la base del costone di roccia dove poggiano i terrazzamenti e poi risalire attraversando un bell’arco naturale.

Già si vedono i ripidi scalini scolpiti che portano all’Eremo Studion. Una corda fissata alla roccia aiuta il passaggio. L’eremo deve forse il nome a San Teodoro Studita, si alternano ambienti rupestri e in muratura, scolpite sul fondo di pietra le canalette per la raccolta dell’acqua piovana: queste convergono verso un’ampia cisterna ricavata da un’apertura della roccia e un po’ fanno pensare a come saranno fatti secoli dopo i chiostri delle abbazie, cioè con un pavimento inclinato che converge verso il pozzo posto al centro del chiostro. Accenni di affreschi sulle pareti. Il rumore di una cascata in lontanaza che viene dalla parete opposta del vallone. Dall’apertura dell’entrata si vede oltre l’Eremo delle Carceri, anche questo non accessibile semplicemente a piedi, forse era davvero usato per punire casi di mancanza di disciplina o anche per periodi di reclusione volontaria.

Si sta nel cuore del vallone, con le pareti che si chiudono intorno. È dopo aver lasciato l’eremo del Mulino che è venuta in superficie questa sensazione: un qualche peso che sta dentro si alleggerisce, sembra galleggiare sopra un vuoto più denso. Quando si è chiusa la vista sul golfo, i bordi del vallone hanno formato una specie di coppa circolare. Il calice di roccia ora si sta colmando della luce a perpendicolo del mezzogiorno. Il tempo non riesce a sospendersi completamente, c’è sempre il rumore di quella cascata a dettare un ritmo e una frequenza. Bisognerebbe passare dei giorni qui, forse dei mesi perchè quel flusso divenga eternamente uguale a se stesso. Allora il tempo resterebbe sospeso e forse la percezione dell’eternità riuscirebbe ad aprirsi un piccolo varco proprio come fanno queste grotte: squarci nella roccia dai quali gettare lo sguardo verso una dimensione di luce.

cammino eremi gargano

Si vedono tracce di sentiero anche sul versante opposto. Tagliando per un canalone nel fianco, con po’ di pazienza si potrebbe salire fin sopra, sul bordo del grande pianoro di Coppa la Pinta. Continuo però a camminare tenendo la destra orografica del vallone Campanile. Si continua a salire di quota. Guardandolo dall’alto, ora il grande incasso roccioso più che a un calice fa pensare a un chiostro dove invece delle colonne e degli archi c’è la roccia rosea e arancio intervallata dalle nere strisce delle infiltrazioni d’acqua. Si taglia il fianco del monte fino a raggiungere la sella dove convergono la valle dei Romiti e il vallone di Pulsano, il suo crinale ampio e aperto degrada verso mare. Sopra un reticolo di muretti a secco, vecchi ricoveri di pastori mezzi diroccati con il tetto sfondato, di nuovo la campagna con gli animali al pascolo, i primi esemplari fioriti di romulea, lo zafferanetto dai petali violacei e il cuore giallo. Un vento leggero arriva a spezzare finalmente il silenzio. Poco più di mezz’ora di cammino e sarò di nuovo all’abbazia.

Quando i passi ti portano a Lapedona.

Abbiamo camminato in gruppo su uno dei bellissimi crinali del fondovalle piceno. Nel freddo di una mattina di dicembre abbiamo scoperto che a Lapedona ci sono tre ottimi modi per scaldarsi: camminare, bere il vino cotto e godere di una bellissima ospitalità.

In cammino sul crinale da Torre di Palme a Lapedona.

Ci siamo appena lasciati alle spalle Torre di Palme, bell’incasato marchigiano del circuito I Borghi più Belli d’Italia. La signora Angela è stata gentilissima a farci trovare aperte tutte le chiese di questo borgo affacciato sulla costa adriatica. Prendiamo la provinciale che sale sul crinale e ancora abbiamo negli occhi gli affreschi di scuola giottesca di S. Maria a Mare e la superba pala di Vittore Crivelli conservato nella gotica S. Agostino. Cielo grigio in un dicembre che sembra più un marzo con le sue bizze. Sull’asfalto lasciamo tracce di fango che cade dagli scarponi: il sentiero era pesante nel bosco del Cugnolo, il ricco lembo di macchia mediterranea che abbiamo attraversato uscendo da Torre di Palme. Sole che appare e se ne va. Vento forte soffia da nord mentre camminiamo sulla provinciale che attraversa tutto il crinale fino a Lapedona. La città di Fermo con il suo Duomo bianco in lontananza, le colline verdi di foraggio, punteggiate di ulivi appena potati e segnate dalle righe delle vigne scure come tratti di matita. Dalla porta di una casa che dà sulla strada si affaccia una signora in pantofole che ci dice buona passeggiata, e pian piano Lapedona si avvicina con il suo grazioso skyline di borgo medievale ben conservato, le case in mattoni e il campanile che ogni tanto fa suonare le sue campane. Alle porte del paese ci sta aspettando Luca, assessore comunale alla Cultura. Ci siamo dati appuntamento a San Quirico, bella pieve romanica del X secolo che già si vede tra le roverelle sul piccolo spiazzo del colle con la sua abside alta e stretta.

Abside Chiesa di S. Quirico.

Arriviamo che siamo infreddoliti e come dei veri pellegrini d’altri tempi troviamo rifugio nella pieve dove Luca ci sta aspettando con il parroco Don Devis. Il tempo di scaldarci e iniziamo ad ascoltarli: ci parlano della storia della chiesa e del santo bambino a cui è dedicata, e ora sono gli occhi a camminare sui dettagli di questo gioiello dagli affreschi ai capitelli di un romanico primigenio della navata, fino all’ambiente della cripta anche questo come il resto della chiesa egregiamente recuperato e ben conservato.

Fuori piove e fa freddo. Ma qui a Lapedona sanno come scaldare l’ospite viaggiatore. Luca ci ha appena presentati Stefano e Giuseppe, gagliardi signori rispettivamente presidente e vice della Pro Loco, siamo nella loro sede e con tanta passione ci stanno raccontando di come si fa il Vino Cotto. Sui cellulari ci fanno vedere gli scatti di quando preparano i calderoni in occasione della sagra di paese. Ogni anno a Settembre costruiscono nella piazza i muretti di blocchi di tufo che conterranno i calderoni di rame dove verrà fatto bollire il mosto. I blocchi vanno stuccati con acqua e terra, proprio come si faceva una volta in tutte le campagne dei dintorni, con il calore lo stucco verrà cotto e non ci sarà dispersione di fumo e calore – volete vedere la cantina? Sta proprio qui accanto – impossibile rifiutare: due passi di numero e siamo nello stanzone di quella che era la macelleria del paese, le grandi botti fanno da cornice alle parole di Stefano e Giuseppe che continuano a raccontare con tanto trasporto: – queste sono botti che contenevano il Rosso Piceno durante l’affinatura in barrique. Dopo un po’ le aziende le devono rinnovare, così quando le scartano noi le prendiamo e ci mettiamo il vino cotto – Giuseppe ha una sua botte che tiene vino cotto da quarant’anni, la botte va rabboccata periodicamente perchè parte del vino viene “bevuta” dal legno della botte. Chiedo se qui a Lapedona come succede in altre parti rabboccano usando il Marsala ma Stefano ci tiene subito a precisare che – qui a Lapedona il vino cotto lo rabbocchiamo solo con altro vino cotto – e allora non ci resta che assaggiarlo nella degustazione che hanno preparato per noi di là in sede, con i cantuccini inzuppati dentro come da tradizione.

Stefano Testa e Giuseppe Pieragostini posano davanti le botti di Vino Cotto.

Il vino dal caratteristico colore del rame fa il suo dovere, ci siamo scaldati e rinfrancati e siamo pronti a continuare la nostra visita guidati da Luca, ed è una specie di crescendo: prima entriamo nella barocca SS. Nicolò e Martino per ammirare il soffitto ligneo dipinto (il più grande delle Marche) recentemente restaurato poi ci trasferiamo nella Sala Consiliare dove è conservata la una splendida pala del De Magistris. Luca ci dice che prima era sull’altare maggiore di S. Nicolò ma per ragioni di sicurezza è stata portata qui nel palazzo comunale. Dalle finestre della sala si gode di un panorama unico con le colline che dolcemente degradano verso l’Adriatico e staremmo qui a guardare in silenzio il capolavoro del pittore nato a Caldarola per molto tempo ancora ma dobbiamo spostarci per l’ultima tappa della nostra visita.

Luca Pieragostini ci parla della Pala di Simone de Magistris.

Un breve tratto in auto lungo il crinale che scende in direzione dell’Adriatico e siamo alla Chiesa della Madonna Manù. Ad aspettarci c’è Antonio Mercuri, custode della chiesa e lapedonese doc che ci saluta con un gran sorriso – siete fortunati, guardate che bella luce illumina la chiesa – ed è vero, siamo a ridosso del tramonto ormai, la luce sta saturando in un bell’arancio – guardate le formelle, si vedono molto bene i caratteri in ebraico – ci fa notare Antonio – quella scritta significa “manna” da cui Manù che dà il nome a questa chiesetta piccola ma tanto tanto bella – si vede che Antonio è affezionato a questo luoogo, ci invita ad entrare anche perchè il vento freddo ha ripreso a soffiare, e dentro ci racconta di come tutta la chiesa è stata costruita con materiali di recupero comprese le formelle con i loro enigmatici simboli all’esterno che forse provengono da una sinagoga di Fermo.

il Sig. Antonio Mercuri viene ad aprirci la Chiesa della Madonna Manù
Antonio e le formelle illuminate dalla luce del tramonto.

Fuori della chiesa, vicino all’abside c’è questo mandorlo scuro con i vecchi frutti ancora attaccati. Con Luca e Antonio ci diamo appuntamento per un’altra camminata, magari la prossima primavera quando il mandorlo sarà in fiore e non ci sarà il vento freddo a dare noia. Ma oggi il freddo non è stato un problema. Ci siamo scaldati camminando e sorseggiando un bicchiere di buon vino certo, ma è stato il piacere degli incontri che abbiamo fatto qui a Lapedona, paese di gente ospitale, a farci davvero dimenticare quel vento freddo che soffiava da settentrione.

In ciaspole per scoprire i Sibillini d’Inverno. 5 itinerari da non perdere.

Il Monte Vettore con la prima neve.

Se volete partecipare alle nostre ciaspolate di gruppo qui c’è il calendario aggiornato.

Ecco la prima neve sui Monti Sibillini, e subito il pensiero corre alla magia dei paesaggi imbiancati e alle camminate con le ciaspole, facili da usare, capaci di conquistare anche i meno esperti fin dalla prima ciaspolata. Pronti a calzare le mitiche racchette per camminare sulla neve? Voglio segnalarvi questi itinerari (con tanto di soste mangerecce) consigliatissimi per gli amanti dei nostri monti leggendari e per tutti gli appassionati dei paesaggi di montagna invernali.

E se volete partecipare alle nostre ciaspolate di gruppo qui c’è il calendario aggiornato.

Castelluccio di Norcia.

Dunque non hai mai provato. E per te andare la prima volta in ciaspole ha il sapore di una traversata polare alla Amundsen. Allora fai così, c’è l’altopiano di Castelluccio di Norcia celebre per la sua fiorita, ma anche d’inverno credimi è uno spettacolo. Puoi fermarti giù nel Pian Grande e camminare in piano per chilometri finchè non hai l’illuminazione e dici ma dai allora che ci vuole! Intanto goditi la vista sul complesso del Vettore che diviene di un arancio incandescente al tramonto e tutta l’ampiezza della spianata che in bianco ha un qualcosa di onirico e surreale. Allora, ci hai preso mano? Bene! Da qui, da Castellucio hai altre due opzioni per divertirti con le racchette da neve: hai l’anello dei colli alti e bassi in cui attraverserai i colli dalle forme sinuose, la faggeta secolare di San Lorenzo e tornerai per il Pian Perduto attraversando un piccolo ma pittoresco canyon. Oppure c’è il classicissimo anello che dal paesino sale per il Monte Veletta e sempre attraversando una bella faggeta ti fa percorrere la Val Canatra per tornare finalmente a Castelluccio. Stacca le ciaspole dagli scarponi e siediti in una delle locande lì in piazzetta, adesso puoi scaldarti con la zuppa di lenticchie e un buon bicchiere di rosso.

trekking invernale escursioni di gruppo sibillini
I Monti Sibillini offrono molti scenari per splendide ciapolate.

Anello di Forca di Presta.

Se non vuoi scendere fino a Castelluccio fermati al Valico di Forca di Presta, prendi il sentiero in direzione del Rifugio degli Alpini e pian piano guadagna il crinale sulla destra. Da qui si aprirà una vista aerea sui Piani di Castelluccio di quelle che ti faranno esaurire la memoria dello smartphone a furia di scattare foto. Per tornare si può continuare a camminare sul crinale per poi scendere sulla sinistra, fare un salto sul belvedere per ammirare la Valle del Tronto e i Monti della Laga e quindi chiudere l’anello tornando in direzione del valico. Se vuoi bere o mangiare qualcosa di buono le opzioni sono scendere a Castelluccio di Norcia oppure le attività di ristorazione di Arquata del Tronto a cui dare una mano dopo i danni del sisma.

ciaspolata sui sibillini
In ciaspole tra colli sinuosi.

Altopiano di Campolungo.

Vuoi camminare sulla neve e avere una vista mozzafiato sul fondovalle piceno fino alla linea azzurra dell’Adriatico? Sui Sibillini puoi farlo in molti posti e l’altopiano di Campolungo di Amandola è uno di questi. Da qui puoi camminare verso valle godendo del bel panorama fino al Gran Sasso d’Italia, pensa che nei giorni più limpidi si riesce a scorgere anche le coste della Croazia; oppure puoi inoltrarti nella vicina faggeta che in un atmosfera da sogno ti farà raggiungere la bella Valle Caprina. Per i più esperti c’è anche l’opzione della discesa sul sentiero che porta fino alla vista super ravvicinata della parete calcarea di Balzo Rosso. Qualsiasi sia l’itinerario che sceglierai, non rinunciare a sederti ai tavoli dell’Agriturismo “Nonno Luì” di Garulla oppure del Rifugio Città di Amandola per gustare i piatti della tradizione sibillina.

Camminata con le ciaspole
Verso l’altopiano di Campolungo di Amandola.

Piani di Ragnolo.

Altro balcone naturale dei Sibillini versante settentrionale. Parcheggiata l’auto a Pintura di Bolognola salite verso il crinale e poi godetevi il resto: l’ampia vista a 360 gradi sulla catena, il versante camerte e ancora tutto il fondovalle che si apre e si squaderna dal Conero al Gran Sasso. Potete scegliere una versione light ma vi consiglio di allungare fino al crinale opposto dove si apre il versante del lago di Fiastra. Quando finiamo di ciaspolare di solito abbiamo l’imbarazzo della scelta su dove fermarci tra la Baita La Capannina, il Rifugio Fonte Lardina e più a valle, in direzione Sarnano, l’Osteria Scherzi a Parte.

camminare sulla neve
Ciaspolata sui Piani di Ragnolo

Da Montegallo per il Sentiero dei Mietitori.

Amo questo itinerario per due motivi, il primo è che si cammina al cospetto della mole imbiancata del Monte Vettore. Si può ammirare la vetta più alta dei Monti Sibillini con una vista ravvicinata, ad altissima definizione camminando su un sentiero comodo che si alterna tra prati montani e piccoli boschi. E il secondo motivo beh è proprio il sentiero conosciuto come Sentiero dei Mietitori: questo era il percorso fatto dai braccianti marchigiani nelle loro migrazioni periodiche verso Lazio e Toscana. Insomma paesaggio top con il valore aggiunto di un cammino storico.

Se volete partecipare alle nostre ciaspolate di gruppo qui c’è il calendario aggiornato.

Ciaspolate di gruppo sui Monti sibillini
Ciaspolata di gruppo sui Monti Sibillini.

Trekking invernale: 7 motivi per cui dovresti praticarlo (e innamorartene)

Oh yes! Camminare sulla neve d’inverno è così divertente senza o con le ciaspole, le racchette da neve semplici da usare anche per i meno esperti. E se non hai mai camminato d’inverno? E se odi il freddo? Muoviti comunque! Hai degli ottimi motivi per camminare d’inverno. Eccoli qua.

Hai già tutto l’occorrente

Non devi spendere una fortuna per iniziare anzi, forse hai già tutto quello che ti serve per le tue escursioni invernali. Come scarponi da trekking invernale vanno più che bene quelli impermeabili, ancora meglio se dotati di membrana goretex. Dei comodi pantaloni pesanti sono ottimi per praticare escursionismo invernale. E per finire i classici strati a cipolla che partono dallo strato termico (ottimi anche quelli degli store della grande distribuzione) e finiscono con una bella giacca a vento o da sci.

Goditi l’aria fresca

Ma certo! Vuoi mettere? C’è una bella differenza tra camminare in certi giorni caldi e afosi d’estate e farlo con l’aria bella, pura e frizzantina. Quando si respira bene si cammina meglio. Non lasciarti spaventare dalle temperature rigide, prendila piuttosto come una piccola sfida con te stesso e un’occasione per conoscere (e superare) i tuoi limiti.

Pronti per la bella stagione

Poniti l’obiettivo di svolgere escursioni invernali con chilometri e dislivello vicini a quelli che avranno le tue uscite estive. Se riesci a fare questo d’inverno, sarai ancora più preparato per le prime camminate della bella stagione.

Allenati gradualmente

Come tutti gli allenamenti devi raggiungere gli obiettivi che ti poni gradualmente. Creati una piccola tabella di marcia mensile. Fa’ molta attenzione ad avere il giusto abbigliamento e il giusto approccio con l’ambiente che ti circonda: i sentieri d’inverno ti pongono di fronte a rischi e difficoltà che non sono presenti con la bella stagione.

Diventa più tosto

Che poi non è solo questione di quando si va per sentieri. Camminare d’inverno ti abitua a sopportare condizioni meteo avverse per tutto il resto dell’anno: mente e corpo diventano così più pronti e reattivi, anche nella vita di tutti i giorni.

Ciauscolo e calorie are king!

D’inverno mangiare cibi più grassi previene l’ipotermia e problemi connessi con una più bassa temperatura corporea. Per dare il meglio in condizioni di temperature rigide hai bisogno del giusto apporto calorico. Quindi sotto con il tuo panino al ciauscolo senza tanti sensi di colpa.

Passione a tutta!

Dici che soffri troppo il freddo? Non è una tortura ma un nuovo modo di scoprire la natura in una dimensione inedita e densa di fascino. Magari le prime uscite ti sembreranno più difficili del solito, ma insistendo vedrai che un po’ alla volta sboccerà la passione: eh già… è così che si superano i propri limiti!

Se ti va di camminare in gruppo con noi tieni d’occhio il calendario delle nostre uscite, anche d’inverno camminiamo su splendidi itinerari per tutti i gusti.

Sullo sfondo la cresta del Redentore, Monti Sibillini durante una delle nostre ciaspolate.

Magnetico, eretico, primordiale: il Monte dell’Ascensione.

Una scalinata di pietra che sale verso il cielo, una piramide, un profilo — quello di Dante o di Cecco d’Ascoli — con la bocca il naso e la fronte, oppure ancora, una grande mano con le cinque dita aperte come fosse un gigante che viene a strapparti via con tutta la terra sulla quale tieni i piedi. È la particolarità del Monte dell’Ascensione, quella di riuscire a cambiare continuamente forma con il punto da dove lo si osserva. Aspro, quasi ostile se lo si guarda da Ascoli Piceno, diventa allungato e rigoglioso di boschi dalla parte opposta, mentre lo si avvicina da mare; comunque sempre riconoscibile, proteso com’è con i suoi millecentodieci metri di altitudine, in mezzo alle colline del Piceno, splendido territorio delle Marche meridionali.Mutevole nella forma, mutevole nel nome attraverso i secoli: Monte Nero il nome più antico che è giunto fino a noi. Nero come i suoi boschi forse, così fitti di faggi lecci e castagni da non lasciare entrare la luce, o più probabilmente per via della parola greca “nerèin” che significa acqua, e la sua pancia ne è davvero ricca tanto da dare origine a diversi torrenti. E questo rimase il suo nome, finché venne il giorno in cui Polisia, figlia del prefetto romano Polimio, non ebbe l’ardire di convertirsi al culto nascente del Cristianesimo. Leggenda narra che inseguita dai soldati inviati dal padre, corse verso il monte che miracolosamente si aprì accogliendola nel suo ventre. Ancora oggi è viva nei dintorni la credenza secondo cui si può ascoltare il rumore di Polisia che sta lavorando al suo telaio tutto fatto d’oro, come d’oro è la chioccia e i pulcini che ruzzolano ai suoi piedi. Da allora verrà chiamato Polesio, conservando impresso nel nome il passaggio dal paganesimo al Cristianesimo poiché nelle sue viscere miracolose si è consumata la metamorfosi di una donna pagana in una santa. Cambia il nome ma non la sua capacità di catalizzare culti e spinte mistiche. Su tutte la vicenda di Meco del Sacco che proprio alle sue pendici nel XIV sec. fondò gli eremi poi giudicati eretici da un clero preoccupato dell’incredibile partecipazione popolare che avevano suscitato. Su questo monte si possono ridurre in macerie gli eremi, così come accadde per templi e culti antichi, ma non sradicare completamente tante piccole pratiche popolari che amano mantenere i legami con il paganesimo lontano: ancora oggi, che con ascendenza tutta cattolica è divenuto il Monte dell’Ascensione, durante le processioni al monte a qualche anziano piace gettare un sasso nella voragine che ha inghiottito Polisia esprimendo un desiderio. O ancora, sul davanzale della finestra che dà verso il monte, c’è chi, a sera, appoggia un bicchiere d’acqua in cui è stato fatto cadere albume d’uovo: la mattina successiva saranno le forme che ha preso l’albume a suggerire gli eventi futuri. Una vela parlerà di un viaggio lontano, una figura femminile che ricorda la Madonna potrà far sperare in un evento benigno o miracoloso.Natura ancora intatta a tratti selvaggia, leggende, memorie antiche, culti e pratiche magiche. Più ci si avvicina a questo monte più si avverte la sua capacità di attrarre e tenere legati a sé elementi che in tanti altri luoghi sono andati perduti. Tutto è ancora in divenire, certo. Forse si fonde e si riforgia, ma nulla si perde. Perché questo monte è luogo primordiale. Estremità di un cordone ombelicale, capace di imprimersi nell’immaginario oscillando tra l’essere meta e l’essere origine.

Ne sa qualcosa Tullio Pericoli, celebre pittore e disegnatore originario di Colli del Tronto, cittadina poco lontana dall’Ascensione. Parlando delle sue illustrazioni per un’edizione del famoso romanzo di Daniel Defoe, non fece certo mistero dell’origine della sua ispirazione: “Nel concepire l’Isola di Robinson Crusoe, al centro di una natura primordiale misi una montagna e, solo dopo aver terminato l’opera, mi accorsi della somiglianza col Monte dell’Ascensione”. Per stessa ammissione di Pericoli il paesaggio piceno ha cominciato a comparire nelle sue opere durante la permanenza a Milano “città dai colori e dalle forme poco amichevoli”. Nostalgia verrebbe da dire, ma il paesaggio “è la prima cosa che si percepisce quando siamo ancora nel ventre materno, con le luci e i rumori. Appena apriamo gli occhi al mondo vediamo la luce del volto di nostra madre e quella del paesaggio che ci circonda. Un grande insieme di suoni, visioni, odori e sapori che si mantengono nella memoria” diventando una traccia, un solco inciso nei cromosomi. Così per l’artista marchigiano, costretto nella metropoli ed orfano dell’Eden, è diventata quasi una costante rievocare nei suoi disegni quelle dolci colline colorate e rasserenanti, disegnate dalle linee geometriche, esatte e razionali, dei filari delle vigne e dei campi arati.Quelle colline che a guardarle nel loro andare fino all’Adriatico, sembrano quasi le onde di un mare placido. Tranquillo, finché non è rotto da un’onda improvvisa, più violenta delle altre, alta e rabbiosa. Compare così infatti, il Monte dell’Ascensione, con i suoi profili liquidi e molteplici, con le sue rupi che ricordano la cresta dei flutti, con i burroni e le grotte abissali, con i suoi calanchi splendidi e tormentati. Appare rompendo l’andare del fondovalle in una scarica improvvisa, un grido, un’eco dei primordi che spezza le sinusoidi regolari dei colli, le linee dei filari e delle arature, la punteggiatura dei borghi. Così è comparso milioni di anni fa, in modo relativamente improvviso, quando la spinta tettonica ha innalzato quelli che erano i sedimenti lasciati da fiumi antichi. Il vuoto era divenuto pieno, dove erano le foci ora c’è il monte. E il monte alzandosi si è lasciato modellare dai processi naturali, e si lascia modellare ancora dall’occhio umano che lo scruta e ne coglie le tante metamorfosi con la vivacità dell’immaginazione.Così compare, improvviso e primordiale, nel mare interiore. Per scoprirne il motivo non resta che tentare di andare a ritroso, rielencando i suoi tanti nomi e ripensando le sue tante forme, andando e riandando sui suoi sentieri finché alla fine del cammino, magari sul margine della sua cresta più alta, non si scoprirà che se siamo venuti fin quassù è perché, in un altro tempo o in un’altra forma, ci eravamo già stati.

Di diavoli, cascate ed arcangeli.

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Le frazioni di Pozza e Umito sono fatte di poche case, sparuti gli abitanti, relativamente recente la strada d’asfalto che arriva fin qui: siamo nel cuore della Laga marchigiana, a ridosso di una sorta di trivio dove ai confini delle Marche si avvicinano quelli di Lazio e Abruzzo. Continua a leggere “Di diavoli, cascate ed arcangeli.”