Come costruire un’Arca sul magnifico altopiano.

Non sarà il monte Ararat, ma anche qui sull’altopiano di Castelluccio le acque a un certo punto si sono ritirate: difatti questo è il fondo di un antico lago che poi si è prosciugato non so quanti milioni di anni fa.
Non dovrei essere qui perché è proibito. O meglio non è proibito starci ma, su ordinanze emanate dopo il terremoto, lo è arrivarci con le auto percorrendo una delle tre provinciali che collegano l’altopiano al resto del mondo. Non dovrei essere qui, eppure ci sono. Come ci sono arrivato non ha poi molta importanza: potrei averlo fatto seguendo la traccia dei sentieri innevati, o per teletrasporto dall’Enterprise che svolazza nell’alto dei cieli, o più semplicemente lasciando la macchina a un certo punto e poi metti gli scarponi e vai. Non ha importanza come sono arrivato, ha forse più importanza ciò che mi ha mosso a prendere zaino e ciaspole e venire.

Sono sceso nell’altopiano lungo uno dei suoi fianchi. La linea del sentiero fa pensare alla traiettoria della pallina da roulette che ha appena iniziato la sua corsa verso il vortice delle trentasette possibilità. Io so già che uscirà il mio numero, so già che la pallina si fermerà esattamente lì, nel centro della piana. Man mano che scendo l’altopiano si apre scoprendo distanze bianco latte. Le linee prospettiche si aprono ampie e veloci, intorno una cornice di colli ondulati, creste e crinali, la colonna vertebrale dei Sibillini. Cavalli allo stato brado mi scrutano, sospesi nel teso languore della dimensione selvatica. Quando atterro, quando la pallina si stoppa dove sapevo che si sarebbe stoppata, trovo un manto di circa trenta centimetri. Poca neve, per quanta ne può cadere da queste parti quando decide di cadere per davvero. Quando atterro i piedi restano fermi sul trivio al centro della piana, è il punto dove la strada provinciale 477 si dirama nelle tre direzioni: verso ovest per andare a Norcia, verso est per svalicare nelle Marche e verso nord per raggiungere il borgo. Tutto intorno è il cratere, come oramai ci hanno abituato a chiamare la vasta area colpita dai terremoti del ’16. Dentro l’altopiano solo il borgo è dichiarato zona rossa, fuori dall’altopiano le strade di accesso sono interdette alla circolazione: per questo guardando le strade e tutti questi sentieri intorno mi viene in mente un muscolo cardiaco con tutta la rete dei suoi vasi tenuto isolato dal resto del corpo.

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Cosa c’è allora qua nel cuore. C’è silenzio e cielo azzurro, c’è il borgo ferito quasi a morte e la grande montagna che si alza dal deserto bianco della piana. C’è un brivido che corre, ed è quello che vai sempre cercando, quello che ti dice che finalmente ti sei scollegato e che sei al primo passo della comunione con lo spazio che ti contiene. C’è il borgo di Castelluccio che si alza verso il cielo con la linea delle case mezza morsicata: dentro a lottare sono rimasti i pochi e gli indomiti che oggi per cuocere la pasta scalderanno neve nelle pentole masticando l’amaro delle promesse spezzate. E non sto parlando di quattro montanari che si sono messi per traverso d’ignoranza. Sto parlando di una realta’ che tra turismo e agroalimentare smuoveva ogni anno una cosa come quattro milioni di fatturato con sessanta aziende e centinaia di posti di lavoro. Ora è tutto fermo: a oltre 15 mesi dal sisma Castelluccio non ha ancora né una Sae, né una struttura d’emergenza, né una strada. Da qui non li posso vedere: se ne stanno là nella loro cittadella, stanno insieme, sanno che la comunità deve essere alla base della ricostruzione, e continuano così a sfidare l’isolamento nonostante siano costretti ad affrontare già il secondo tosto inverno.
Ma il borgo mezzo crollato ha questo suo modo di puntare comunque verso l’alto, abbarbicato sulla cima del suo colle con dignità e speranza. Sarà questa giornata luminosa, sarà il bianco della neve, saranno le sue pietre antiche e avvezze ma Castelluccio urla le sue ferite verso la volta azzurra con una forza dannatamente bella.

Scatto una foto da lontano. Nella foto c’è il cucuzzolo con le case, la strada scura d’asfalto che lo raggiunge, le montagne innevate che si stagliano nel cielo blu e tanta bella luce. Sempre con i piedi sul trivio, il catino immenso mi contiene piccolo come un granello di polvere. Gli occhi corrono intorno animati dalla piccola scintilla che mi separa dall’essere polvere. Corrono, e leggono. Leggono la grande montagna che custodisce in grembo il lago maledetto: nell’Età di Mezzo, quando si sparse la diceria che avesse ingoiato il cadavere di Pilato, sulle sue rive è stato tutto un pullulare di eretici, negromanti e preti esperti di corde saponate, dacchè la Chiesa per scongiurare tutto quel traffichio eresse delle alte e belle forche. Leggono poi la linea fredda e metallica delle macchine da lavoro, una roulotte, rimorchi e capanni, e sopra incombente la linea della faglia che appare poco sotto la cresta della montagna. Corrono orizzontali, sono due righe di testo separate dalla quote ma unite in un tratto di narrazione comune, voci che generano un dialogo poi un coro vecchio di mille e mill’anni.
Non è solo storia recente. Da sempre il fugace e penato vivere dell’uomo ha dovuto fare i conti con il lento e inesorabile andare di quella faglia. Prendo il cellulare e posto la foto del cucuzzolo con le case e la strada accanto. Ora le linee diventano tre: la faglia, le sagome metalliche ferme nel deserto bianco, e la timeline dove l’immagine del borgo è caduta come una goccia nel mare. Io che non dovrei essere qui, ora ci sono un po’ più di prima che postassi roba sulla time line: arrivano like e condivisioni, un brivido infinitesimale corre nella grande rete neurale degli utenti, e di nuovo mi ritrovo all’intersezione di una triplice direzione. Vista dalla timeline l’altopiano è radioso e anche il borgo non se la passa poi così male: basta buttarla lì dicendo hey qui è una giornata okkey e qualcuno comincia a taggare i contatti nei commenti, in un niente arriva la voglia di prendere e partire, stanno chiedendo qual è la strada aperta per arrivare e allora aggiungo un granello di realtà rispondendo che non ci sono strade aperte alla circolazione per arrivare qui.

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Già, la realtà. Nel silenzio della radura dove restano quieti i rimorchi e gli arnesi e bianche e fredde le lamiere dei depositi e delle rimesse, c’è da districarsi ancora tra la massa di annunci e dichiarazioni e promesse di pronta e vera ricostruzione, tra le speculazioni e i feticci di “deltaplani” che soli dovrebbero riportare in alto le sorti del magnifico altopiano. C’è da farsi strada ancora, tra altri lugubri e penosi mucchi di roba venuta giù, le cui ombre si allungano non soltanto qui ma su tutto il cratere. Perché anche stavolta, sulle macerie delle case e dei cuori, sono crollate altre macerie ancora. Sono le macerie della realtà, quotidianamente sconquassata alle fondamenta, resa indistinta e vaga nel pulviscolo delle post verità, aperta nelle mura portanti dall’elastico di dichiarazioni enfatiche e smentite alla chetichella, una realtà rasa al suolo dal bispensiero e sistematicamente ricostruita in un luogo e in un tempo altri. Ma si sa che qui non facciamo certo eccezione. Quanto a percezione del reale tutto il mondo è cratere, non c’è un solo centimetro quadrato di crosta terrestre che non sia “a rischio sismico”. Non è la prima volta e non sarà l’ultima: puoi chiamarlo terremoto, shock, emergenza, crisi o attentato ma sempre sarà l’humus su cui impiantare le nuove narrazioni. Se non sarà il terremoto sarà un’altra rogna, ma ogni volta, dietro la maschera dell’incompetenza o dell’indifferenza o della corruzione, dietro il fatalismo delle braccia allargate, ci sarà una mano ferma ed esperta a tenere il bisturi. E la lama affonderà e aprirà la carne nel punto esatto dove si annida il male da estirpare. Perchè ad esempio, cose come una popolazione radicata, identitaria, costruita e strutturata sulle proprie tradizioni, tali sono per il nuovo organismo che si va modellando: un agente patogeno, una metastasi, un grumo di cellule non sufficientemente destrutturate per considerarsi degne di entrare nella gloria della nuova creazione.

Ora potremmo restare per chissà quanto altro tempo con il culo sulla faglia a crepare di gelo e di pioggia, a macerarci di male oscuro e a disseccarci sotto le lamiere arroventate. Potremmo continuare ad apparire e scomparire sotto le luci e i coni d’ombra dei riflettori mediatici. Potremmo morire e poi risorgere, potremmo anche riuscire a farcela, certo, in qualche modo. Ma non si tratta soltanto di ricostruire case, vite e comunità. Da tempo si è attivata una faglia, sebbene metaforica, molto più profonda e più intima che continuerà a scodare e vibrare, ad aprirsi sotto altri culi, sotto altre forme. E su questa non stanno soltanto case e affari e affetti, ma tutto ciò che è stato per secoli fondamento di una cultura sgorgata come un fiume, le società che ne hanno accolto i flussi come delle valli, le identità che se ne sono dissetate. Dunque ecco qua, sono a un trivio per celebrare il sabba ed evocare demoni dai nomi proibiti, in fretta e furia, mentre già albeggia e le macerie si rischiarano dei lumi del nuovo credo che sorge all’orizzonte. Farlo qui, su questi sentieri che per secoli hanno collegato Roma all’Adriatico e quindi all’Oriente fino ad Atene e Gerusalemme ha un sapore particolare.

Questi luoghi sono come un’arca: conservano una memoria, una pupilla li scruta da sempre densa e scura dalla cicatrice fresca della montagna madre, e nella pupilla stanno galassie di eventi e destini. Quando sarà momento di ricostruire bisognerà affondare la mano in tutto quel tempo ammassato, in tutta quella memoria, in quella Storia. Bisognerà scegliere bene e serbare ciò che si è scelto nel segreto di acque maledette. E in tutto quel mare, se i piedi vorrano restare testardi a calcare quest’altopiano, se sono queste le terre alle quali si vorrà continuare a chiedere vaticini, un’onda si incresperà più delle altre, un giorno brillerà più degli altri: il giorno che di là da occidente, da Subiaco, salirono quegli uomini raccolti nel saio. Camminarono e ancora camminarono sentendo che il cammino racchiudeva in sé le tre direzioni della loro regola: ora, lege et labora. Dalla città di Norcia seguirono il sentiero che ancora segna il passaggio sicuro sotto il Patino fin su alla Forca di Giuda. Attraversarono così la piana e svalicarono per vedere finalmente tutto il fondovalle che si apriva verso l’Oriente. Anche quello era tempo di macerie. Fisiche, sociali e spirituali. E quello che fecero quegli uomini, i Benedettini, fu alzare delle cittadelle: nelle mura dei monasteri e delle abbazie e nelle arche dei loro spiriti e delle loro menti. Coscienti della necessità di preservare un sapere inestimabile stiparono dentro tutto il salvabile e, mentre fuori cadevano ancora i resti di un impero fatiscente, insieme a Cristo sedettero in una grandiosa tavola imbandita Vitruvio, Ovidio e chissà quanti altri.
Come nel bianco di questa neve stanno fuse le frequenze dei colori che si separeranno esplodendo nella fioritura primaverile, è in questa memoria che si raccolgono le fondamenta e le radici di ciò che si sta frantumando lungo il fronte dell’onda d’urto: la nostra Identità. Non resta che costruire delle arche, altrimenti anche lì sarà freddo, indistinto e immobile cratere.

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Il sole è una lampadina

Questo pezzo dei Porcupine Tree nella testa. Voglia di uscire, di camminare per affacciarmi su di una qualche soglia, è ora di farlo quando il tuo sole è una lampadina. Molte tracce in mente, percorsi da legare e intersecare con le gambe e con la pagina ma gli occhi oggi cadono sul punto della mappa dove è segnato il confine, la linea che oggi meglio di altre mi dà l’idea della soglia, del passaggio, della linea oltre la quale i riferimenti cambiano, il pieno diventa vuoto, quel poco che sai si ritira per lasciare spazio al mare nuovo. Continua a leggere “Il sole è una lampadina”

Conero, roccia narrante.

Potrebbe sembrare strano parlare del Conero senza dire del suo mare, senza gli azzurri e i verdi liquidi e senza i bianchi delle schiume che vanno a lambire o a sferzare la falesia.
Ma per un attimo, e solo per quest’attimo, lo si terrà in disparte quel mare splendido legato al promontorio marchigiano in una simbiosi di bellezza. Perché il Conero è anche monte, corpo antico e elevato, concrezione di calcare, bianco ed alto di roccia. La sua voce non solo si perde e si corrode nelle tempeste che lo sferzano, ma nella roccia rimane, insiste, racconta. Una roccia che nel mutare delle sue tante forme, è stata un nastro magnetico che ha registrato informazioni di ere, evoluzioni, sconvolgimenti. È stata pelle che reca segni e cicatrici e a volte anche pagina che ha invogliato a tracciare, segnare, scolpire. Ed ogni volta, ha trattenuto qualcosa: informazioni più o meno chiare e intellegibili ma comunque sempre preziose, cariche di suggestione, capaci di aggiungere fascino a un luogo già incantevole per i suoi ambienti e paesaggi.

Ad esempio, sullo stradone di San Lorenzo, uno dei sentieri che sale verso il culmine del monte, presso una cava dismessa, si può distinguere quello che i geologi chiamano il limite K-T ovvero la linea di cesura delle formazioni rocciose del Cretacico e del Terziario. Per sapere che cosa ha da dirci la roccia al riguardo sono necessarie le lenti del microscopio: appoggiando gli occhi si vedrebbero diversi fossili di organismi, i foraminiferi, e si noterebbe come, nel passaggio da uno strato all’altro, la loro quantità e varietà si abbassino notevolmente. È la traccia lasciata da una estinzione di massa, esattamente quella che 65 milioni di anni fa ha causato la scomparsa su tutto il pianeta dei dinosauri. Come sigillo, a suggerire la causa di questo evento, la roccia ha trattenuto tracce di iridio, un elemento raro sulla terra ma spesso presente nei meteoriti.

La presenza di cave non deve stupire. Per secoli il monte è stato oggetto di attività estrattiva e la materia che usciva poteva diventare calce – in una delle fornaci ancora visibili nei dintorni, interessanti testimonianze di archeologia industriale – oppure materiale per la costruzione della vicina Ancona, finendo nelle mura e nelle chiare facciate delle chiese più belle di questa città. I primi ad essere estremamente attivi furono i romani, da sentiero si possono raggiungere le grotte romane: cunicoli che entrano nel fianco del monte anche per centinaia di metri, scavati dagli schiavi, che recano ancora incisi caratteri latini.

Anche fare due passi presso i siti di estrazione più recenti può regalare belle sensazioni. I crateri delle cave a cielo aperto affondano nel verde, ma è possibile scendere e camminare sul loro fondo. Anno dopo anno, la vita vegetale lentamente avanza riappropriandosi dello spazio che gli è stato sottratto. Gli arbusti salgono dalla pietraia, le radici tornano ad abbracciare il bordo delle rupi, le chiome degli alberi si gonfiano come fossero il fronte di un’onda colossale. A volte l’aria entra e accelera incanalandosi, ed è il momento buono per godersi il volo dei rapaci che si alzano sfruttando le correnti calde.

Per questi uccelli è assai facile individuare le correnti, dov’è che scorrono, dove scivolano calde e leggere sulle grevi masse di correnti più fredde. E lo fanno percependo le subfrequenze delle masse calde, ovvero, con un occhio che va dall’infrarosso all’ultravioletto, riescono a percepire e distinguere il colore dell’aria calda; riescono a farlo, proprio come un essere umano riuscirebbe a distinguere il colore di un ferro incandescente. Salgono su quelle correnti tracciando invisibili spirali: ora sono a centinaia di metri di altezza, sono arrivati in cima a quelle altezze quasi senza sforzo ed è come se fossero all’inizio di una lunga discesa, uno scivolo, praticamente un piano inclinato fatto d’aria sul quale andranno veloci. Ad attriti minimi e quasi senza mai battere le ali copriranno quelle centinaia di chilometri necessari a compiere la loro migrazione periodica. Perché questa cosa, questo prendere la corrente buona e poi salire su, su in alto per poi partire, avviene tutti gli anni ed ogni volta sono gli esemplari più anziani e più esperti che vanno su per primi e dietro i giovincelli a cercare di capire come devono e come non devono fare. Ed è una lezione alla quale dovranno prestare massima attenzione, perché l’anno successivo toccherà a loro il compito del maestro.

La capacità di distinguere frequenze utili da rumori inutili, coglierle e separarle, lasciando emergere quelle sole che sono essenziali facendo silenzio intorno: credo sia una facoltà utile non solo a dei rapaci. È una facoltà che ha a che fare con un concetto assoluto del volo, del distacco, dell’elevazione. Cercare silenzio, coltivare silenzio e riuscire a catturare armonie e vibrazioni e così staccare il volo: da lassù si vedrebbe la ferita della cava sparire nel verde, come fosse inghiottita dalla pancia stessa del monte. Si scoprirebbe un silenzio nuovo, profondo come il silenzio che c’è in una cripta, nudo ed essenziale come la pietra che la riveste.

A proposito: una tappa obbligata quando si sale al Conero è la Badia di San Pietro, la chiesa del convento fondato dai camaldolesi con la sua cripta. Stupendi i capitelli in stile romanico: le mani che li hanno scolpiti hanno plasmato simboli che evocano il dualismo intrinseco nell’uomo e nella natura, il bene e il male, l’elevazione e la dannazione, la capacità del mondo di rigenerarsi all’infinito, in un processo anch’esso duale che oscilla ogni volta tra distruzione e creazione.

Foto: uno dei capitelli della Chiesa di San Pietro.
Uno dei capitelli della Chiesa di San Pietro.

Da quando esiste l’uomo la cima di un monte è luogo privilegiato per il contatto con il divino. Perché si è più vicini al cielo. Perché per arrivare in cima, al culmine, bisogna prima salire e penare e sudare, superare una prova insomma come l’esistenza di ogni giorno non cessa di ricordarci. La roccia del Conero ci dice che l’uomo è salito qui a cercare il divino quasi dagli albori.La pietra che contiene un’informazione così preziosa è la placca di arenaria, raggiungibile da sentiero, sulla quale sono state scoperte incisioni rupestri risalenti a un periodo molto probabilmente antecedente all’Età del rame. Si tratta di canalette che seguono le pendenze della lastra andando a convergere verso delle coppelle, ovvero delle piccole vasche rotondeggianti scavate nella roccia.

Poco si sa sul significato di queste incisioni, così come si possono azzardare soltanto ipotesi sulla loro precisa funzione: potrebbe essere una rappresentazione topografica cioè una mappa di luoghi anticamente rilevanti, oppure un altare sacrificale e vai a capire se il sangue che probabilmente scorreva sulle canalette per riempire le coppelle, era quello di animali o di qualche disgraziato. Un’ipotesi meno cruenta lo indica come un sistema per raccogliere le acque piovane, anche queste come in molti altri culti, utilizzate in riti e vaticini.

Al di là di ogni ipotesi, rimane comunque la testimonianza di un’umanità che già dalla sua infanzia possedeva attitudini quali la capacità di astrazione, nel caso le incisioni fossero una mappa, e il senso del sacro e del divino nel caso il sito sia stato usato per svolgere riti e sacrifici. Attitudini che hanno accompagnato l’uomo durante tutto il suo cammino attraverso la Storia.

Insomma, la voce dei secoli e dei millenni ha trovato nella roccia del monte Conero la materia ideale per imprimersi. I suoi echi si mescolano alle molteplici percezioni degli istanti presenti, unendosi a suoni, colori e profumi, realizzando la preziosa alchimia di questo luogo unico.

Il Cammino Francescano della Marca

Sono a un tavolo con Maurizio Serafini, Luciano Monceri (organizzatori e guide escursionistiche) ed Emanuele Luciani (assistente) per una chiacchierata sul Cammino Francescano della Marca: il pellegrinaggio a piedi da Assisi ad Ascoli Piceno, che ripercorre la via seguita da San Francesco nei suoi viaggi nelle Marche meridionali.

Inizialmente avevamo deciso di incontrarci a Macerata, e questa da subito mi era sembrata una buona location per l’intervista: ci sarebbero state le strade, l’asfalto e i palazzoni; le macchine che vanno e vengono e i visi anonimi dentro; i tanti cartelli di “affittasi” e “vendesi” come purtroppo se ne vedono in tante altre città. Tutto questo sarebbe stato un buono sfondo per i nostri discorsi, avrebbe creato un buon contrasto mentre si parlava del loro pellegrinaggio: alle automobili si sarebbero contrapposti le gambe e gli scarponi; all’asfalto ed ai palazzi, le strade sterrate e le colline e le pareti rocciose delle gole; ai vuoti opachi che traspaiono dalle vetrine ed alle serrande abbassate, gli occhi vivi, aperti e colmi di stupore di gente che si vede per la prima volta e decide di intraprendere assieme un viaggio. Se si riesce a far risaltare dei contrasti significa che poi si è ancora in tempo, in tempo per non farsi prendere da una remissiva abitudine, per non considerare fatalmente inevitabili gli eventi e le circostanze quotidiane a cui siamo esposti. Se si incontra gente come Maurizio, Luciano ed Emanuele si scopre che legare tra loro concetti come territorio, risorse e radici può dare un risultato libero da tante consuete retoriche. Un  risultato, come quello del Cammino Francescano della Marca, capace di distillare fattivamente i contenuti storico culturali delle nostre terre, traendo linfa dal sentimento spirituale che da sempre le caratterizza.

Avevamo deciso di incontrarci a Macerata dicevo, poi un cambio di programma ci ha fatto ritrovare qui, all’Abbazia di Fiastra: luogo splendido, assai diverso da un centro cittadino, che anticamente metteva a disposizione una foresteria, un ostello, per ospitare viandanti e pellegrini. Sulle mura si trovano incisi piccoli fiori a sei petali, segno per alcuni della presenza dell’ordine Templare che a quei pellegrini forniva assistenza e protezione. Direi quindi che, anche senza polveri sottili e mestizie urbane, il posto si presta più che bene alla nostra chiacchierata.

Com’è venuta l’idea di realizzare il Cammino?

Luciano: Ci sono state diverse motivazioni. C’è la valenza storico-culturale e naturalmente quella della dimensione spirituale. Abbiamo incontrato una persona, Andrea Maria Antonini, allora assessore all’Ambiente della Provincia di Ascoli Piceno, è stato lui a dare l’input a fare qualcosa che potesse legarsi alla figura di San Francesco, nella prospettiva della celebrazione dell’ottavo centenario della sua presenza ad Ascoli, che cade proprio quest’anno. Ci ha commissionato la mappatura del percorso, da Assisi ad Ascoli, e questa è stata portata avanti sovrapponendola all’attività di  ricerca storica. Quest’anno siamo arrivati alla quinta edizione, per l’occasione inaugureremo anche la nuova segnaletica.

Maurizio: c’è anche una motivazione socio-economica. Percorrendo il Cammino di Santiago di Compostela, ci siamo accorti di territori rinati grazie a questa realtà: un  territorio depresso, come poteva essere quello del nord della Spagna e dell’entroterra, non si è spopolato e non è stato abbandonato dai turisti. Gli abitanti hanno ritrovato un senso di comunità, di appartenenza al progetto che coinvolge e unisce anche le altre comunità delle varie regioni. Sono rimasti nei luoghi delle proprie radici, hanno riscoperto il legame, e hanno cominciato a ricreare un’economia: quindi hanno trovato uno stimolo per rimanere nella propria terra piuttosto che emigrare verso poli industriali e megalopoli. Abbiamo capito che l’idea poteva essere riproposta anche qui da noi. Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di rivitalizzare l’entroterra, proponendo un modello che non si basa sullo sfruttamento del territorio, che non cementifica e non preleva risorse naturali per distribuirle altrove. Con il Cammino Francescano della Marca abbiamo l’occasione di ricreare nella popolazione e negli operatori una consapevolezza, un nuovo senso di cosa voglia dire considerare il territorio come una risorsa.

Perché San Francesco è andato ad Ascoli? Come ci è arrivato?

Emanuele: Francesco viaggiava guidato dallo Spirito, spinto dal desiderio di predicare il Vangelo. Fa quattro viaggi nel Piceno: nel 1215 all’andata è venuto da Norcia, è sceso da Forca Canapine poi tramite la Salaria è arrivato ad Ascoli. Per tornare ad Assisi ha fatto il percorso che noi con il nostro cammino percorriamo all’inverso, da Assisi ad Ascoli, e nel tracciarlo, abbiamo considerato una tratta storicamente importante: la tratta Assisi-Caldarola, che ricalca praticamente l’antica Via Lauretana. Poi, da Caldarola ad Ascoli, abbiamo recuperato, dove possibile, ancora percorsi storici, alcuni di questi addirittura vanno a sovrapporsi con strade frequentate fin da epoca romana.

Maurizio: se con il cammino di Santiago, per decine di chilometri, addirittura nella Meseta Centrale per centinaia, incontri un paesaggio uniforme e senza nessuna novità, nei 170 chilometri del Cammino Francescano si transita per centri di interesse storico e architettonico come Spello, Foligno ed Ascoli, e in siti straordinari e vari anche dal punto di vista naturalistico: vai dalle sorgenti alle paludi, dalle forre ai crinali e ai calanchi.

E i partecipanti? Come vivono questa esperienza?

Luciano: Questa è una analisi che facciamo ogni anno, e ogni volta abbiamo sviluppi e risultati diversi. La sensazione più netta e più diffusa è questa: senti la mente che si apre ed è una sensazione che hanno avuto un pò tutti. Un giorno puoi stare davanti, un giorno indietro, poi mentre cammini, se sei in difficoltà, c’è chi ti dà una mano, così come tu sei pronto a dare una mano se vedi che qualcuno ha bisogno del tuo supporto. Insomma, la mente si apre in questo senso: perché ti accorgi dell’altro, dei suoi bisogni. Durante il cammino senti che cambia la tua dimensione di vita: sei fuori dall’ordinario e ti si apre lo straordinario che può essere la natura, l’incontro con l’altro che cammina al tuo fianco. Ah ecco, un’altra cosa che si nota è che i cellulari si usano poco. Addirittura c’è gente che alla fine del cammino si accorge di averlo perso e non ricorda dove. Non si vedono crisi di astinenza da web perché sono diverse le connessioni che si vanno a creare. Tra i pellegrini si creano legami e interazioni qualitativamente differenti da quelle che si possono avere in contesti soliti o sui social networks.

La presenza di San Francesco dov’è?

Maurizio: ma è nella sodalità tra i pellegrini! Francesco muoveva e creava tanta di quella bellezza nel suo cammino, al punto che le persone si univano. Si univano in nome di questa bellezza, una bellezza che è fuori e che è dentro. La comunità del cammino si è creata su questo concetto: abbiamo persone che, nonostante provengano da storie e collocazioni sociali completamente diverse, riescono a convergere. È davvero un popolo in cammino, non ci sono barriere comunicative. Incontri persone con tutte le loro vicissitudini che le hanno spinte in pellegrinaggio; le loro storie mi danno il senso dell’umanità vera, ed è questa l’umanità in cui voglio credere. Perché ognuno avrà le proprie contraddizioni, ma quando li incontri in cammino vedi che come te stanno cercando il centro motore delle cose, l’essenza, e questi sono i segni di una Bellezza ancora più straordinaria con cui uno vuole entrare in contatto, a cui uno vuole tendere.

Emanuele: Nella spiritualità francescana riscopriamo, inoltre, che nella frugalità e nella essenzialità delle cose si può riconoscere il senso del vivere. Da poco, riceviamo molto. Una dimostrazione di questo fatto è a Fiungo. A Fiungo c’è una signora, vive da sola, e quando passa il Cammino apre casa ai pellegrini e offre ciò che ha, da bere, da mangiare: allora avverti la presenza francescana anche dove non c’è una chiesa o un convento o un’edicola o un luogo storico. Senti che questa presenza è fatta dalle persone e dai loro gesti.

Quindi dove c’è l’incontro non c’è bisogno del tempio?

Maurizio: Di templi, di chiese, se ne incontrano diversi lungo la strada: questi luoghi si associano con ciò che stai vivendo, non sono staccati, sono perfettamente integrati con la tua esperienza umana e spirituale. È una dimensione che si avverte in pellegrinaggio, i luoghi fisici ci sono, ma si tende comunque a luoghi interiori. E la pratica del camminare, dello spostarsi lentamente, si presta e ti porta a cercare il tuo tempio interiore. Insomma te la vedi con te stesso, con i tuoi limiti fisici e con quelli spirituali. Hai tempo per pensare: se sei all’interno di un’azione pensi all’azione e non pensi a te stesso, noi siamo poco abituati a rallentare, a stare in silenzio, a stare disconnessi, abbiamo paura di questo confronto.

Emanuele: sarebbe una cosa molto meno spirituale andare da luogo a luogo senza considerare quello che sta in mezzo, chi si incontra appunto, quello che “accade” in mezzo.

Avete parlato di popolo in cammino. Mi sono venuti in mente gli Ebrei che se ne vanno dall’Egitto. Si affrancano dalla schiavitù camminando, rinascono popolo tramite un pellegrinaggio…

Emanuele: l’uomo cerca il cammino da quando ha la concezione di una dimensione spirituale e il desiderio del divino. Erano luoghi di pellegrinaggio Stonehenge, Carnac in Francia, ma abbiamo esempi anche da noi: il Santuario di età tardo-repubblicana a Monte Rinaldo o anche il Monte dell’Ascensione di Ascoli. L’uomo, da quando ha avuto coscienza di sè stesso, ha sempre cercato la dimensione spirituale, l’ha proiettata nei luoghi e quindi nell’atto di avvicinarsi ad essi.

Maurizio: è un archetipo che appartiene a tutti i popoli e a tutte le religioni. Noi abbiamo frequentato le contrade nepalesi e tibetane, anche lì ci sono luoghi di pellegrinaggio importantissimi: mi viene in mente il Kailash, dove arrivano induisti, buddisti, i giainisti dal Pakistan e dall’India. Arrivano a piedi in questo luogo a 6000 metri di altitudine, un luogo che è la rappresentazione simbolica del concetto del pellegrinaggio: chi arriva prende un vecchio indumento, una scarpa, un cappello o una giacca, e lo lascia sulle rocce. E allora vedi questa distesa pazzesca, questi mucchi di pietre cosparsi di vecchi indumenti, occhiali, orologi e pantaloni lasciati da tutti quelli che sono passati. Ognuno di loro ha compiuto questo gesto simbolico: ha lasciato i suoi vecchi abiti e da quel momento è diventata un’altra persona.

È  andato da “vecchio” ed è tornato rinnovato.

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Cronache da un paesaggio binario

Sul retrovisore la linea livida del mare é inghiottita dai primi colli. È una linea esausta che piano si chiude tra i gialli delle falesie morte e i neri delle forre: voli scuri, sgarri di china nel cielo come corone leggere come tracce come residui di una mano che è andata li a dilettarsi nel segnare il cielo.
Davanti le colline diventano sempre più fitte e aspre, chilometro dopo chilometro, come se mi stessi addentrando tra le convoluzioni interne di un ventre. Le chiome delle roverelle sui margini frastagliati, i calanchi e i campi lavorati a farne le rughe e poi altre tracce e altri segni a srotolare nello spazio le innumerabili forme. Quando si alza la quota, le geometrie dei campi e le linee delle colline si cancellano sotto la coltre di neve. Frequenze che si acquietano, che si infrangono e si inabissano in un silenzio bianco.

Sotto il transito dei satelliti, sotto i loro occhi ansiosi anch’io segno la mia linea, da punto a punto, dirigendomi agli antipodi dei non luoghi in cui il solo modo di esistere è il non essere, alle mie spalle parallelepipedi come tanti, con una torre in mezzo come tante, con una scritta tipo “noi siamo quello che facciamo”: cose che dovrebbero gonfiare e motivare e dare un senso al tempo speso e che dovrebbero farti sentire parte indispensabile di un Tutto. Il condizionale è d’obbligo, perchè il dubbio resta come un rumore di fondo, un disturbo avvinghiato al segnale come un’edera e il dubbio sostanziale è che non sia invece questo segnale il disturbo vero e proprio, il degrado dell’informazione, e il rovello di fondo che permea i giorni non sia l’unica pagina che invece valga la pena leggere.

Anche quelle torri verranno ingoiate dai rampicanti e crolleranno e passeranno, come passano imperi e civiltà, come passa il segnale video, come passano i volti ingoiati dall’anonimato. Ciò che non passa è questa radiazione di fondo, impressa dall’inizio, quella che fa andare stasera verso monti e colline come se stessi risalendo l’utero, come se soltanto salendo su fino a dove la neve splende al plenilunio e andando dentro, in fondo, fino a dove posso infilare la mano nella corrente, possa toccare finalmente ciò che mi riconosce e mi definisce.

(All’alba la pista di atletica è per buona parte coperta dalla neve. Solo in alcune strisce si ha il contatto con il fondo e bisogna stare concentrati a guardare bene se si mette il piede sopra al gelo. Bisogna guardare, e ascoltare. Lo scrocchio grasso significa che la scarpa sta sulla neve, quello breve e acuto dice che sotto la suola c’è invece il gelo. Fossi con gli auricolari e la musica a manetta non credo riuscirei a correre granchè stamattina. Devo fare silenzio intorno e togliere di mezzo qualsiasi altro input perchè emerga l’informazione che per me in questo momento è essenziale.) Le antenne debbono stare su a scremare dal segnale tutto il superfluo, tutto ciò che è stato messo lì successivamente come un additivo, come una distrazione, come codice alieno e parassita. C’è ogni volta da orientarsi verso l’origine, da volgere la prua alla sorgente, al principio, lì dove la pistola è ancora fumante di senso ed energia. Di vita. Ogni volta c’è da trovare il modo di zittire tutto ciò che è stato messo lì a far da melassa: tutti i giga e i thera che separano dall’essenziale, da quella cripta di silenzio dentro la quale instaurare dialogo e allacciarsi all’impronta primigenia. C’è da creare un paesaggio binario, popolato di bianchi e di neri. Di informazione essenziale e silenzio. Segno gravido su pagina bianca. Zero ed uno che si alternano nella reazione delle endorfine codificando promesse di ebrezza. Una visione più chiara e più netta scaturisce in piccoli impulsi, una singola onda quadra di significato irrora i circuiti logici ed esplode in geometrie frattaliche, paesaggio e pulsazioni cardiache, stesso alfabeto, stessa codifica. All’orizzonte un ponte adamantino di connessioni rinnovate, di fusioni, di evasioni definitive dalla prigione materiale, dal feticcio di epidermide dentro il quale ci vogliono relegati.

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Di sentieri e finitudini

 

Oggi il silenzio è fatto del cielo terso e del bianco delle cime dei monti ed è rotto dallo scorrere del ruscello ingrossato. Il sentiero sale tra i fusti scuri dei faggi e dei castagni, a tratti sgombro, a tratti ancora semisepolto dalla neve segnata dalle orme di creature notturne. Continua a leggere “Di sentieri e finitudini”

Su due ruote lungo l’alzaia dell’Adda

Presso Trezzo sull’Adda (Mi), in bici sulla ciclopedonabile del fiume Adda:  immerso nella natura,  un museo a cielo aperto lungo diciassette chilometri, tra suggestioni leonardesche e gioielli di archeologia industriale.

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Il fiume Adda si allarga in un’ansa ampia e rotonda, diventa ancora più lento, placido fino a sembrare un lago. I pioppi tremuli, le alte betulle e una quantità di vegetazione salgono dalla linea delle rive fino a nascondere case e palazzi, parallelepipedi e ciminiere.Continua a leggere “Su due ruote lungo l’alzaia dell’Adda”

“Sammenedette, care bbille mi…”(*)

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Sembra inevitabile che il destino comune delle circostanze più favorevoli, che per sorte hai in ogni momento a portata di mano, sia quello che esse vengano percepite ben presto come scontata routine, senza lode e senza infamia, niente di cui rallegrarti e, men che meno, di cui reputarti fortunato. Continua a leggere ““Sammenedette, care bbille mi…”(*)”

#mtb orizzonti in contrasto fioriture salite discese

Dai prati sopra Garulla, Parco Nazionale dei Monti Sibillini, l’occhio corre su tutto il fondovalle dal Conero al Tronto, dietro il Polesio luminoso la linea netta e azzurra del mare: si vedono addirittura piccole sagome bianche di transatlantici che tracciano da sponda a sponda l’Adriatico.Continua a leggere “#mtb orizzonti in contrasto fioriture salite discese”

Ninfe alle sorgenti dell’Ambro

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Anello classico per le sorgenti dell’Ambro. Di buone tracce disponibili ce ne sono diverse, questa è la mia con un breve tratto che si allarga sopra al sentiero per via di una slavina. La voglia di farlo mi è venuta una sera, proprio mentre stavo li nello spiazzo del Santuario a riguardarmi le punte e i balzi ancora bianchi di neve mentre venivano ingoiati dalle nubi cariche di pioggia. Continua a leggere “Ninfe alle sorgenti dell’Ambro”